Elleboro
Il racconto della settimana
Ogni sabato mattina, per arrotondare la paga da muratore, Rosario si alzava alle sette e dopo aver fatto una lauta colazione – il caffè della moka da tre tazze con due cucchiaini di zucchero – si avviava verso il viale di Ognissanti, proprio nei pressi del Cimitero delle Anime e dietro la Via dei Miracoli.
Il torpore del poco sonno e la stanchezza accumulata nell’intera settimana, lo avevano costretto a adottare delle piccole strategie che gli consentivano di mantenersi in uno stato di dormiveglia per tutto il tragitto e camminare a occhi chiusi, usando dei punti di riferimento che lo guidavano lungo il percorso, così da non sbagliare mai strada.
Era orgoglioso del trucchetto escogitato perché guadagnava ben quaranta minuti di sonno, e quaranta minuti erano quasi un’intera ora che per quattro sabati al mese erano quasi tre ore di riposo recuperate.
Così, ancora a occhi chiusi, con la camicia a quadri raffazzonata e il pantalone da lavoro, Rosario si apprestava a uscire di casa e a salire le due rampe di scale che lo separavano dal portone d’ingresso. Aver affittato la camera vicino alle cantine del fabbricato, anche se col bagno nel corridoio esterno, era stato un colpo di genio, perché al mattino doveva salire le scale e non scenderle come facevano tutti: montare le scale a occhi chiusi era certo più facile e meno pericoloso che farle all’incontrario.
Giunto sull’ultimo scalino, Rosario si avviò lungo il corridoio, contando sottovoce: «Uno, due… cinque… venticinque passi.» Senza riaprire gli occhi, sollevò la sinistra e voltò il capo verso la guardiola.
Come ogni giorno la vecchia Carolina, portiera ormai da oltre quarant’anni, giocava a carte sgranocchiando caramelle croccanti. Rosario non poteva vederla, ma riusciva a udire benissimo quel croc croc croc… che ne rivelava la presenza e lo avvisava che era giunto al limitare dell’ingresso. Allora spostò la mano destra sul corrimano e scese i quattro gradini con gli occhi bene aperti. La scala d’ingresso del portone sito al civico 4 di via della Misericordia, infatti, era una trappola infida. Rosario aveva perso il conto di quante volte era inciampato nella paletta dimenticata dalla signora Carolina; o nella coda di Tigre, il gatto della famiglia Rotoloni, che aveva unghie e denti degni del suo stesso nome. Così, lui aveva imparato ad aprire gli occhi per uscire dal portone, e a richiuderli subito dopo.
E comunque, non è che camminasse proprio a occhi chiusi: mica era scemo! Lasciava sempre una fessura, piccola piccola, giusto per non apparire uno zombie agli occhi di coloro che lo incrociavano per la strada.
Via dei Miracoli era sempre affollata di donne e uomini che parevano rincorrere il tempo, troppo veloce e insufficiente agli infiniti impegni della giornata. Con i volti seri gesticolavano portando l’auricolare senza fili come fosse un gioiello di Cartiér. Chi invece voleva distinguersi esibiva il suo IPhone nella mano, l’ultimo modello supercostoso full optional, tenendolo come si tiene la pizza appena uscita dal forno sotto casa: con cura e attenzione, controllandola ogni tanto in attesa che si freddi abbastanza per poterla avvicinare alla bocca.
Rosario guardava sempre con stupore queste scene, soprattutto al mattino, quando già tirarsi su dal letto gli sembrava una grande vittoria e uscire in strada per andare al lavoro, la conquista di un’intera nazione. Di solito camminava lento, sul bordo del marciapiede; di tanto in tanto lo urtava qualcuno, ora a destra, ora a sinistra. Teneva sempre il conto di quanti colpi avesse ricevuto per ciascuna parte, così da stabilire come sarebbe andata la giornata: se prendeva più colpi sul lato destro, allora la giornata sarebbe stata promettente; se ne prendeva più sul lato sinistro… ‘na vera schifezza!
Quella mattina, come sempre, giunse al termine della prima via e aprì gli occhi cercando l’insegna del caffè di Peppino, detto o’cannibbale perché in gioventù faceva i combattimenti clandestini e una volta con un morso aveva tolto il naso all’avversario, mossa che gli aveva procurato la vittoria assoluta e il suo soprannome.
L’insegna era lì, a cinque passi, proprio davanti a lui. Rosario voltò a destra e contò altri dieci passi, svoltò di nuovo a sinistra e riaprì gli occhi.
Ecco l’insegna della bottega di frutta e verdura della signora Clementa Sciosciammocca, il negozio più “in” di tutto il quartiere: un chilo di arance della Clementa costavano il doppio che al banco del mercato, ma ti venivano consegnate a casa, in un cestino di vimini confezionato con uno splendido fiocco verde e con tanto di bollino di controllo del negozio. La signora Clementa era una bottegaia davvero esigente; quando lo aveva assunto Rosario non aveva resistito più di due interi fine settimana: troppe responsabilità, e si era stufato subito di sentirsi dare dell’incapace e del cretino così tante volte al giorno per soli dieci euri. Così, aveva preso tutte le consegne della giornata e si era messo in piazza a venderle per conto suo… e quanti soldi aveva fatto, lo ricordava bene! Per qualche tempo, poi, aveva cambiato strada, evitando di passare davanti a quel negozio, e allungando il cammino di ben ventidue minuti – tutti a occhi aperti! – nel caso la Clementa l’avesse rincorso con la scopa per vendicarsi.
Un giorno che aveva troppo sonno, però, se ne era dimenticato, ed era riuscito a passare indenne. Per certe cose era sempre stato fortunato! Nessuno faceva mai caso a lui, nessuno lo guardava in faccia. Così aveva ripreso a fare la vecchia strada: venti passi e poi voltare a sinistra.
Finalmente era arrivato e, a quel punto del percorso, il caffè preso appena alzato aveva fatto effetto e Rosario si sentiva bello fresco. E ciò’ era un bene, perché non si sapeva mai come poteva finire quando si segava un marmo.
L’insegna del civico sette di Via della Misericordia era in Marmo di Calacatta; sulla targa spiccavano lettere eleganti color bronzo scuro: “Segheria di Luigi Sciortella – Marmi per lapidi e tombe.” Il Marmo di Calacatta era davvero pregiato. E lui se ne intendeva di marmo, e pure Luigino, il proprietario.
Rosario entrò a passo lesto nel negozio; indossò il grembiule in cuoio, impolverato, appeso ai ganci dietro la porta; quindi, uscì dal retro e attraversò il cortile. In tutto cento passi. E prima di varcare la soglia del capannone, spalancò bene gli occhi: da lì in poi, erano cose serie.
«Ohé, Rosà,» Luigino gli sorrise allontanandosi dalla sega circolare, «ieri sera abbiamo preso proprio un bel marmo, eh!»
Rosario annuì. «Te l’avevo detto che quello della Signora Concettina Pistillo era il più pregiato e pure coi bordi d’oro!» Quindi guardò la lapide su cui l’altro stava lavorando. «… E poi si staccava bene …’o vedi? Un taglio preciso, senza manco un graffio!» Agitò la mano sinistra su e giù a mezz’aria. «Tu, invece, no! Per forza che volevi prendere il marmo di quel tale, com’è che si chiamava? Roberto… Riccardo… Rodrigo…? Rolando Pensabene!» Rosario puntò l’indice verso il cielo, «LUI… pensa bene,» e lo riabbassò per indicare Luigino, «tu, invece, no!”.
Luigino gli ammiccò divertito. «Ho fatto un buon affare a prenderti Rosà: hai cervello! Stasera altro giro, eh!» Sfregò i palmi delle mani rimettendosi alla mola. «Cappella numero 56, fila 4, loculo 7» concluse.
«Seeeeeiiii!» esclamò Rosario, spazientito.
Il campanello della bottega suonò.
«Vado a vedere chi è venuto, finisci tu ‘o lavoro, eh!»
Rosario per qualche istante seguì con lo sguardo Luigino, poi fissò la lapide con occhio critico e la lisciò con un palmo. «Un’altra passata e non si noterà più nulla della vecchia scritta. Sarai come nuova!»
Intanto Luigino si era posizionato dietro il bancone.
L’uomo innanzi a lui indossava un completo scuro di buon taglio e un cappello elegante.
«Buongiorno, signore, mi dica!»
L’altro si avvicinò, accigliato: «Mi hanno detto che siete voi che mettete le lapidi di marmo sui loculi di questo cimitero, è vero?»
Luigino annuì. «Sissignore, signore, siamo gli unici specializzati nella zona! Sono ormai trent’anni!»
«Devo commissionarvi una lapide per la tomba di mia madre, sita al padiglione 20 – fila quattro – loculo 2. Stamattina sono venuto a portarle i fiori e qualcuno aveva rubato la lastra di marmo col nome e il portafotografie.»
«Che gente scostumata, prendersela pure coi morti!» Luigino agguantò un pezzo di carta da sotto il bancone e con una matita usurata cominciò a scrivere la commessa: «… Padiglione 20, fila quattro, loculo due.»
Il distinto signore si sporse sul bancone. «E quanto mi costerebbe?».
Luigino con aria professionale allungò la mano per prendere la calcolatrice da tavolo, armeggiò con il rotolo di carta e digitò alcune cifre; quindi, mostrò al cliente il totale ottenuto. «Solo milleduecento euri. E può pagarmi in due volte: metà subito, l’altra metà quando avremo riattaccato la lapide sul loculo di sua madre. Stia tranquillo!»
L’uomo lo fissò indeciso.
«E che nome va scritto sulla lapide?» l’incalzò Luigino.
«Concettina Pistillo, di anni 93» concluse l’altro; e mise mano al portafogli.
*Il racconto è risultato vincitore della IV Edizione del Premio Nazionale di Letteratura Italiana Contemporanea LCE
Contesto: nel 2016 presso un cimitero, da qualche parte nel Lazio, si sono verificati una serie di furti ai danni delle lapidi di marmo messe a copertura dei Loculi funerari. I sospetti si sono subito posati sulle ditte specializzate della zona, su un paio soprattutto.
A distanza di alcuni anni, non si è giunti ad alcuna conclusione: le lastre in marmo vengono ancora rubate e i parenti dei defunti continuano a incaricare le ditte specializzate per ricollocarle al loro posto.