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Il villaggio era riservato esclusivamente allo stato maggiore, ai suoi cavalli, alle sue cucine, ai suoi bagagli, e anche a quel porcaccione del comandante. Si chiamava Pinçon ‘sto maiale, il comandante Pinçon. Spero che a quest’ora sia proprio crepato ( e non di morte tranquilla). Ma in quel momento, di cui parlo, era ancora sconciamente vivo il Pinçon. Ci riuniva tutte le sere, noi del collegamento e poi allora ci strapazzava un bel po’ per rimetterci in riga e cercare di risvegliare i nostri ardori. Ci mandava tutti al diavolo, noi che ci eravamo trascinati tutta la giornata dietro il generale. Piede a terra! Cavallo! A ripiede! Così per portargli gli ordini, di qui, di là. Avremmo fatto meglio ad annegarci quand’era finita. Sarebbe stato più pratico per tutti.
«Andatevene tutti! Raggiungete i vostri reggimenti! E sbrigarsi! Ecco che ti sberciava.
− Dov’è che è il reggimento, comandante! gli chiedevamo noi.
− È a Barbagny.
− Di là!»
Di là, dove indicava lui, non c’era altro che la notte, come ovunque, d’altronde, una notte enorme che si mangiava la strada a due passi da noi e tanto che dal buio non ci sbucava che un pezzetto di strada grosso come una lingua. […]
[…] E uno squadrone di prodi! E io che prode non ero affatto, e che non capivo affatto perché avrei dovuto esserlo, un prode, avevo ancora meno voglia di tutti di ritrovare la sua Barbagny, di cui d’altra parte lui stesso parlava assolutamente a caso. Era come se avesse cercato di strapazzandomi al massimo di farmi venire la voglia di suicidarmi. Certe cose le hai o non le hai.
Di tutta quell’oscurità così spessa che ti sembrava di non rivedere più il braccio quando lo stendevi un po’ più in là della spalla, io sapevo una cosa soltanto, ma quella proprio con assoluta sicurezza, ed è che conteneva delle volontà omicide spaventose e innumerevoli. […]
[…] La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a che punto gli uomini sono carogne.
Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera. […]
tratto da Viaggio al termine della notte, di Céline.
Cosa ci si aspetta da una rubrica culturale? Non ho la pretesa di avere la risposta giusta, la cosiddetta ricetta. Credo, però, che chiunque abbia la possibilità di scrivere o di arrivare alla gente abbia il dovere morale di creare spunti di riflessione.
Ci siamo svegliati con la guerra sotto casa e non si può far finta di nulla.

