In passato non ho mai celato il mio disdegno per molti degli allestimenti ospitati da Palazzo Blu a Pisa: percorsi poco lucidi, opere affastellate, nomi di artisti inseriti per tappare buchi allestitivi, cataloghi e pannelli esplicativi spesso ambigui o fuorvianti.
È il caso della precedente mostra De Chirico e la Metafisica (2021) di cui conservo un ricordo pessimo e poco esaltante. Tuttavia, scontrandomi con ogni mia pretestuosità intellettuale, ho deciso di fare ritorno a Palazzo Blu richiamato da un nome altisonante come quello di Keith Haring.
Haring fu uno dei pittori più completi, insieme a Jean- Michel Basquiat, appartenenti alla corrente dei graffitisti, un nome che lo storico dell’arte Flavio Caroli non esita ad inserire fra i suoi Sette pilastri dell’arte di oggi (Mondadori, 2021) definendolo “geniale”.
Pur preparandomi al peggio, la mostra si è rivelata una sorpresa, frutto della collaborazione fra la Nakamura Keith Haring Collection e la fondazione pisana che ne è anche la sede espositiva. Il percorso si muove dalle opere della maturità dell’artista statunitense, indugiando su serigrafie come Unlited (Fertility) (1983) o progetti come The story of Red and Blue (1989), passando per le sculture in alluminio dipinto, tra cui spiccano le Three dancing figures, version B (1989), che ricordano una versione più pop de La danza (1910) di Henri Matisse.
Gli spazi centrali della mostra sono invece dedicati ai soggetti più iconici di Haring, per i quali è divenuto famoso e si è imposto nell’immaginario collettivo: da Retrospect (1989) a Radiant Baby (1990).
Non mancano ovviamente omaggi alla città, come il Pisa 89 (1989), testimonianza del legame affettuoso fra Haring e la città toscana dove l’artista lavorò e realizzò l’ultima delle sue opere: il gigantesco murales Tuttomondo (1989), osservabile sulla parete esterna della chiesa di Sant’Antonio Abate.
Keith Haring (2022) è una mostra che ci catapulta nell’immaginario estetico dell’autore, fatto di omini e figure stilizzate, testimonianze di una perpetua ricerca sul segno e il suo senso e di uno studio ossessivo sull’essenzialità dell’immagine e sulle significazioni delle figure disegnate.
Nonostante infatti l’arte di Haring possa apparentemente mostrarsi come semplice e superficiale, in realtà essa nasconde una profonda consapevolezza simbologica e politica: è il caso di Silence = Death (1989), una serigrafia su sfondo nero dove campeggia un enorme triangolo rosa davanti al quale si accalcano le classiche figure stilizzate di Haring, schiacciate quasi sulla superfice e alternatamente raffigurate a coprirsi gli occhi, le orecchie o la bocca.
Una denuncia potente quella di Haring, risaputamene omosessuale, e che ben sapeva che il simbolo del triangolo rosa veniva usato dai nazisti per marchiare gli omosessuali destinati ai campi di concentramento, proprio come gli ebrei venivano bollati con la Stella di David.
In questo modo, l’artista ci avverte già dal titolo che il silenzio corrisponde alla morte, che l’indifferenza ci rende complici, e l’inattività politica legittima disastri e genocidi proprio come Martin Niemoller scriveva nel famoso sermone:
“Prima vennero a prendere gli zingari, e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omossessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
La parte finale dell’allestimento è dedicata invece alle ultime opere alle quali Haring si dedicò poco prima della prematura scomparsa a causa dell’AIDS nel 1990.