Non convince il primo capitolo tratto dalla nota serie di videogames, tra interpretazioni piatte e scene d’azione flosce e dozzinali.
È domenica, la giornata è uggiosa e decido così di accompagnare degli amici al cinema.
Ho già visto molti dei titoli in programmazione, quindi penso che non ci sia nulla di male nell’andare a vedere un film di puro intrattenimento come Uncharted, tratto dalla serie di videogiochi sviluppati da Noughty Dog e pubblicati dalla Sony.
Conosco la storia e gli attori, quindi entro in sala con un certo livello di aspettative.
Alle 17.45 la proiezione ha più di un quarto d’ora di ritardo: la serata non parte bene. E continuerà peggio.
Ruben Fleischer è un regista che non amo ma apprezzo, soprattutto perché nei suoi film ha mostrato di non prendersi mai troppo sul serio.
Che debba raccontare una storia demenziale ma brillante come in Benvenuti a Zombieland (2009) o immergersi nell’universo Marvel come in Venom (2018), Fleischer ha sempre dato prova di una certa autoironia.
È proprio questa che manca in Uncharted, un film che si prende troppo sul serio, che vorrebbe essere grintoso e ricco di scene ad effetto ma che si rivela un inanellamento di momenti fra i più mosci di tutta la storia del cinema d’avventura.
Nonostante i continui richiami alle estetiche che hanno edificato questo genere cinematografico, dalla saga di Indiana Jones (1981 – 2008) di Steven Spielberg alla serie di Pirati dei Caraibi (2003 – 2017) di Gore Verbinski, il film di Fleischer non è che una pallida copia di queste pellicole, lontanissimo dall’epica che si poteva respirare in queste grandiose esperienze filmiche.
Vuoi la mancanza assoluta di momenti di riflessività o la costruzione delle dinamiche non sempre accurate e ben gestite, fra scene previste, eventi scontati e voltagabbana di cui già si sospettava fin da prima che avvenissero, il film stenta a decollare, tutto preso a comprimere una storia che avrebbe avuto bisogno di più di un’ora e cinquanta scarsa per mostrare le proprie potenzialità al meglio e che non porta alla luce tutti gli sviluppi che intercorrono fra i vari personaggi.
I fan più sfegatati obbietteranno che si darà modo ai sequel di ottemperare a queste mancanze, ma l’esperienza insegna che se un film parte così male difficilmente un seguito potrà risollevarne la sorte, soprattutto se la sceneggiatura rimane pressata e i personaggi poco sviluppati non trovano una soluzione, preferendo soddisfare le pretese dei gamers più accaniti invece di puntare su una adeguata caratterizzazione.
È questa un po’ la maledizione di tutti i film tratti da famosi videogiochi: che si tratti del Tomb Raider (2018) con Alicia Vikander o di Assassin’s Creed (2016) con Maichel Fassbender, il problema è sempre lo stesso: decidere di compiacere un’unica tipologia di pubblico, quello degli ammiratori più sfegatati, dei giocatori incalliti, non tenendo conto delle diverse esigenze degli spettatori.
I problemi di Uncharted non si limitano però solo a questi: Mark Wahlberg non prova nemmeno a costruire un personaggio, Tati Gabrielle rimane per un’ora e cinquantasei con la stessa espressione e Tom Holland resta ancora una volta troppo ancorato alle sue origini nel mondo dei supereroi Marvel.
Holland sarebbe un attore molto capace, con il giusto phisique du role e tante risorse attoriali, ma è ora che abbandoni il prototipo del bravo ragazzo innocente, puro e vergine come il Peter Parker della trilogia di Spiderman (2017 – 2021) e si conceda a ruoli più complessi e stratificati, dove poter spiccare e trarre il meglio dalla propria preparazione.
Cosa che non capita in questo film, che traduce l’impegno di Holland in un protagonista abbozzato, più articolato di quello del bruttissimo film Cherry (2021) ma sempre troppo vicino all’eroe dell’MCU.
In un cast così apatico, l’unico attore che veramente lascia di stucco è Antonio Banderas che si dedica ad un antagonista scuro e con quel tocco di introspezione che non guasta, proprio perché l’introspezione non è spesso di casa nel cinema d’azione e sicuramente è del tutto assente in Uncharted.
In conclusione, Fleischer compone un film appena sufficiente e insignificante, che non spicca, che getta le sue risorse migliori nel grande tritatutto dell’intrattenimento ma che si dimentica di curare in modo più incisivo l’aspetto formale e contenutistico.
L’unica speranza rimasta usciti di sala è che il sequel non faccia ulteriori danni, che Fleishcer torni ad occuparsi di film più alla sua portata e che Holland finalmente cominci un percorso di maturazione che possa tirare fuori il vero grande attore che è in lui.

