Direi che per la nostra rubrica dei Ritratti d’Autore, oggi, non può mancare quello di un grande della letteratura russa: Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837).
È addirittura considerato il fondatore della letteratura russa contemporanea, fu il primo a modernizzarne il linguaggio e a fonderlo con gli ideali prima illuministici e poi romantici, del suo tempo, conferendole dignità nazionale. Pochi poeti, in Russia, sono amati come lui.
Nella sua enorme produzione letteraria (considerato il breve periodo della sua vita) i generi letterari da lui usati sono stati diversissimi: dal romanzo storico a quello biografico, dai racconti su temi contemporanei ai drammi, dalle novelle, alle favole, e ancora dalle note di viaggio ai saggi critici, dagli aforismi agli articoli giornalistici, per non parlare delle tantissime lettere che ci ha lasciato.
Fu un’autentica ventata d’aria fresca per la letteratura del tempo. Il modo leggero e sobrio con cui usava le metafore o le vicende dei suoi protagonisti, per denunciare gli abusi dei nobili, ha fatto scuola, come anche il suo sondare le profondità dell’animo umano con le sue pulsioni, passioni, amori e… malvagità.
Per capire la sua opera, però, bisogna contestualizzare il periodo storico. Mentre il resto d’Europa era influenzata dalle conseguenze della rivoluzione francese, dall’avventura napoleonica, e la successiva rivoluzione industriale, in Russia, continuava a dominare il regime dispotico e feudale degli zar contrari a qualsiasi forma di evoluzione e di sviluppo economico-sociale dell’impero. Lo zar aveva proibito non solo l’introduzione di libri stranieri ma anche l’uso di parole come “cittadino” e “patria”, che in Francia indicavano un progresso civile e democratico. Tanto per farvi un’idea di come erano le cose… e di quanto poco siano cambiate oggi.
Non sorprende quindi, che nella sua scrittura domini la figura positiva del nobile intellettuale che vive in un mondo rurale ed è dotato di senso morale che lo rende altruista e generoso. Per Puškin, l’uomo è cosciente della propria unicità e per questo non si piega agli eventi, anzi li cavalca per migliorarsi. Ed è quello che ha cercato di fare anche lui nella sua vita, anche se a volte, con risultati diversi da quelli sperati.
L’autore di Evgenij Onegin, Il cavaliere di bronzo, i fratelli masnadieri e altri poemi e poesie, che tanto hanno infiammato gli animi di giovani letterati della sua terra, aveva discendenze militari e nobili, ma di pochi mezzi. Non erano solo i soldi a mancare in casa Puškin, ma anche gli affetti. Il padre era avaro ma non disdegnava la mondanità; la madre univa a queste caratteristiche, anche i capricci. In questo quadretto tutt’altro che idilliaco, il nostro, traeva conforto solo dalla biblioteca che, fortuna per lui (e per noi) era ben fornita.
Naturalmente studiò i classici grazie a un precettore privato che, secondo la moda, doveva essere assolutamente francese. Tuttavia la passione per la tradizione linguistica russa glielo trasmise la governante, Arina Rodionovna, che invece aveva origini contadine e bielorusse. Con buona pace dell’insegnante francese.
La donna raccontava al piccolo Puškin favole del folclore popolare che avrebbero poi influenzato la stesura delle sue opere migliori: Lo sposo, Ruslan e Ljudmila…per citarne alcune.
Al liceo, Puškin si mostra svelto e prodigioso (aveva una memoria invidiabile) nell’assimilare le opere di Voltaire, Rousseau, Molière, Racine. Ma la cosa finisce qui perché nelle altre materie era pigro e svogliato. Però gli piaceva la storia universale e cominciò a comporre versi poetici in lingua russa intorno al 1814. Risale a questo periodo infatti il suo primo componimento: All’amico versificatore.
Comunque sia, alla fine del liceo ottiene magicamente un impiego nel ministero degli esteri senza però che si abbia notizia di quale fosse la sua funzione, né se ne abbia mai svolta una. Si vede che tutto il mondo è paese…
Per rifarsi un po’ dell’infanzia parca di affetti da parte dei genitori, si dedica a tutti i piaceri che una città colta e cosmopolita come San Pietroburgo può offrire. Donne comprese.
Influenzato da tutto ciò che proviene oltrecortina, Puškin aderisce all’associazione culturale leggermente progressista “Arzamas” e inizia a farsi notare grazie al primo dei suoi grandi poemi: Ruslan e Ljudmila, che per la straordinaria leggerezza del verso e la bellezza della lingua, lo rende immediatamente famoso. In esso ci troviamo l’ironia di Voltaire e i sentimenti che gli avevano ispirato Byron, Shakespeare e Goethe.
Uno come lui, non poteva essere insensibile alle nuove idee di libertà e riforma che iniziavano a prendere prepotentemente piede. Così inizia a scrivere versi satirici di critica al regime come La libertà, La campagna, Nöel.
Padroni! a voi trono e corona ha la Legge concesso – non la natura”
E se va male oggi… figuriamoci nel 1819.
Dove non arriva la spada della legge, là giunge la frusta della satira.
Viene quindi confinato nella lontana Ekaterinoslav (Dnepropetrovsk) ma non tutto il male viene per nuocere. Colpito dalla bellezza delle montagne, e con Byron nel cuore, il poeta si immerge nell’atmosfera di queste montagne piene di storie sull’eroismo militare degli ufficiali russi e delle popolazioni del luogo, e scrive la disperata storia d’amore di Fatima ne: Il prigioniero del Caucaso.
Puškin è il nuovo astro nascente. Dopo il confino, si reca con amici in Crimea e scrive La fontana di Bachčisaraj. Poco dopo compone I Fratelli masnadieri che si ispira alla vera fuga di due galeotti che per salvarsi, guadarono insieme un fiume. A questa segue Gli zingari e poi il suo capolavoro: l’Eugenio Onegin, che lo tiene impegnato per ben sette anni.
Nonostante sia amato famoso e con un ampio seguito, nel 1823 commette un passo falso. Scrive (e del resto è uno scrittore) una lettera in cui esprime idee favorevoli all’ateismo. Apriti cielo. Al secondo round di confino gli aggiungono altri due anni e il licenziamento dall’incarico amministrativo.
Potrà tornare a San Pietroburgo solo dopo aver superato una specie di test di fedeltà allo zar.
Puškin china la testa e riprende il suo posto in società ma ogni suo scritto, ora, viene sottoposto ad accurata censura. L’aver accettato questo ricatto lo rende impopolare verso quei giovani di cui aveva tanto ardentemente infiammato gli animi.
Continua però a scrivere. Il cavaliere avaro (sui costumi medievali), Il convitato di pietra (sugli antichi costumi spagnoli), Il festino durante la peste, Mozart e Salieri, Le novelle di Belkin, Scene dei tempi cavallereschi… e si innamora.
Lei è la bellissima Natal’ja Goncarova che gli darà quattro figli, molti dispiaceri e molte corna. E non necessariamente in quest’ordine.
La moglie è anche una gran spendacciona, tanto che la vendita del capolavoroLa figlia del capitano, non sono sufficienti per coprire le spese.
Se gli va male in famiglia, non così sul lavoro. Le sue opere sono diffusissime in tutta Europa. Viene invitato ovunque e lui, che ha sempre sognato di viaggiare e vedere usi, costumi e posti nuovi, non ottiene il permesso di uscire dai confini russi.
Finché un giorno non incrocia una lettera anonima sui rapporti tra sua moglie e il suo amante di sempre: il barone Dantès (che non ha nulla a che vedere con l’eroe di Alexandre Dumas).
Puškin lo sfida alla pistola e, il 29 gennaio 1837, muore. Per i funerali vengono stanziati ben 10.000 rubli. La fedifraga, invece, ottiene una pensione vitalizia di 5.000 rubli.
“Si dice: non c’è giustizia sulla terra. Ma esiste forse in cielo?”
Glielo auguro.

