Paul Thomas Anderson ci regala una piccola/grande storia filtrata dagli occhi di due adolescenti innamorati e immersi nei camaleontici Seventies americani
Nominato a tre premi Oscar, Licorice Pizza è l’ultima fatica del regista californiano Paul Thomas Anderson (PTA, per distinguerlo dagli altri Anderson del cinema, come ricorda Paolo Mereghetti), già acclamato cineasta per Magnolia (1999), Il Petroliere (2007), The Master (2012), con un incredibile Joaquin Phoenix, e Il Filo Nascosto (2017) delicata e lirica pellicola con protagonista un magnetico Daniel Day – Lewis.
PTA recupera in Licorice Pizza il lirismo già caratteristico del suo penultimo film, ma lo contamina con una vena malinconica e un’estetica capace di richiamare i colorati Seventies (la storia è ambientata nel 1973), gli anni dell’America “delle grandi occasioni”, scanditi da tracce accuratamente scelte, dai Doors a David Bowie. In questo senso, il film si può leggere come un grande omaggio del regista a quegli anni, gli stessi vissuti nella sua gioventù, filtrando un’inconscia tendenza all’autobiografismo attraverso gli occhi dei due protagonisti adolescenti: il quindicenne Gary (Cooper Hoffman) e la venticinquenne Alana (Alana Haim). La trama è apparentemente semplice: Gary, giovane attore televisivo in erba, si innamora a prima vista della caparbia Alana. Da questo momento in poi e per tutta la durata del film ci si aspetterebbe la solita commedia romantica dal sapore vintage, se non fosse che dietro alla cinepresa (e allo script) si trovi uno degli autori più geniali del cinema contemporaneo.
Anderson espande le forme e gli stilemi tipici del genere, fa collassare le dinamiche di causa – effetto rompendo la linearità dello sviluppo diegetico (come se aprisse continuamente delle parentesi che a prima vista sembrano non interessare per nulla l’intreccio principale), costruendo uno script semplice che gioca su toni grossolani e a tratti grotteschi. In realtà, PTA compone un racconto dalle strutture aperte che per clima ed evocazione ricorda C’era una volta ad Hollywood (2019) del collega e amico Quentin Tarantino, e che tocca spesso momenti apicali e indimenticabili grazie soprattutto alla fotografia (curata in parte dallo stesso regista) e all’impiego della pellicola 35mm: notevole il piano sequenza iniziale con cui Anderson racconta il primo incontro fra i due ragazzi oppure lo straordinario montaggio alternato della scena in cui Alana, apparentemente sedotta da un bellimbusto di Hollywood (Sean Penn), cade da una motocicletta e Gary la raggiunge, correndo, per soccorrerla. Queste sono solo due delle situazioni, spesso al limite dell’inverosimile, vissute dai due protagonisti che si muovono in un mondo di figurini (come in Boogie Nights – L’altra Hollywood, 1997) e che arricchiscono quella che sembra una teen comedy? Un film di formazione? Una commedia romantica? Un’autobiografia romanzata? Così come lo script ha una struttura tendenzialmente aperta e metamorfica, così anche il film in sé non è facilmente etichettabile ed è proprio questo che rende la sua ricchezza, come negli esempi più tipici del genere: da Il favoloso mondo di Amelie (2001) di Jean – Pierre Jeunet a Il diario di Bridget Jones (2001) di Sharon Maguire.
Lo spettatore amerà dunque perdersi nelle rocambolesche e caleidoscopiche avventure che alternano tiri e molla fra i due adolescenti (ora gelosi ora ritrosi), momenti di grande comicità (come l’incontro con il personaggio di Bradley Cooper, che si spaccia per il fidanzato di Barbra Streisand) o tendenti all’incredibile come quando Gary decide di fondare una società di compravendita di materassi ad acqua o di aprire una sala flipper. PTA è magistrale nell’orchestrare una regia conscia dei propri limiti, nata dalle ultime esperienze del regista nel mondo dei videoclip musicali, sviluppata nell’anno della pandemia e capace di raccontare una piccola/grande storia come in Il Petroliere (2007) o Vizio di Forma (2014), sensibile nei confronti dei grandi modelli del passato, soprattutto ai maestri della New Hollywood: da Peter Bogdanovich all’amato Robert Altman.
L’amore per il cinema straripa da ogni immagine e sublima ogni scena di Licorice Pizza, non a caso i due protagonisti si ricongiungeranno davanti ad una sala dove viene proiettato Agente 007 – Vivi e lascia morire (1973) con Roger Moore: quella di PTA è una appassionata vena cinefila diversa, per esempio, da quella di un Tarantino: niente ammiccamenti, nessuna citazione, solo una intensa partitura composta da una formidabile memoria visiva.
Degni di nota i due giovani protagonisti, alla loro prima prova d’attori, in grado di confrontarsi con uno script complesso e variegato non a caso nominato alla Miglior Sceneggiatura Originale, che si compenetra con la regia classica e magistrale di PTA, tutti elementi che hanno lo scopo precipuo di rimarcare la funzione principale del cinema: quella di creare mondi attraverso la sua “onirica fisicità”, come amava definirla Pier Paolo Pasolini, di dare vita a impensabili universi narrativi fatti d’immagini, veri e propri sogni in celluloide. Una evasione ideale da un mondo sempre più complicato e affaticato dalla distruzione e dall’ingiustizia.
Personalmente non ritengo che sia un capolavoro, e non di certo uno dei migliori del regista, ma ciò dipende più dal gusto personale, dal taste per dirla con Francis Haskell, che da ragioni obbiettive. Chiunque vedrà Licorice Pizza sarà in grado, senza sforzi, di capire la grandezza e la portata di questo film.

