Il ministro della cultura Dario Franceschini firma un libro dove abbondano la propaganda e la retorica ma scarseggiano le soluzioni.
È uscito l’11 aprile 2022 per la casa editrice La Nave di Teseo l’ultimo libro dell’attuale ministro della cultura Dario Franceschini intitolato Con la cultura non si mangia?. Un titolo che prende spunto dalla frase (forse apocrifa) dell’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti che fece quell’infelice uscita in un periodo di gravi tagli al settore culturale e che suona, nell’accezione di Franceschini, come una domanda retorica: quello dei beni e delle attività culturali è un settore in via di sviluppo, solido e incisivo, e questo perché l’Italia è una superpotenza culturale che deve solo cercare di capire quali siano le risorse che può trarre dal suo preziosissimo patrimonio storico. Una visione positivistica, un’idea che sembra far andare tutte le problematiche che affliggono le politiche sui beni culturali verso il meglio, supportata anche da una lunga lista di esempi e best practises sui cui Franceschini rivendica i successi ma anche gli errori.
Peccato che la realtà sia molto diversa.
Nelle prime pagine Franceschini non esita a mostrare tutto il suo amore verso il lavoro al Ministero che per lui si configura come una vera e propria missione: ciò gli fa onore, se non fosse ch’egli ami definirsi come il “ministro di Disneyland”, un’espressione a mio avviso infelice e fuorviante e che denigra il nostro plurisecolare patrimonio storico e artistico al pari di un parco divertimenti, da sfruttare in vista della sua quantità e non della sua qualità. Perché è vero che l’Italia è il paese con il maggior numero di siti Unesco al mondo, ma a nulla vale questo dato più volte sbandierato dal Ministero se gran parte di essi viene lasciato alla deriva, privo di interventi e nell’incuria generale.

Viene poi affrontato il problema dei direttori stranieri chiamati a dirigere i musei italiani, e al solito viene tirato in ballo il nome della Galleria degli Uffizi di Firenze e del suo direttore Eike Schmidt. Schmidt viene ovviamente elogiato ed idolatrato, ma forse Franceschini dimentica la moltitudine di episodi disdicevoli dei quali gli Uffizi sono stati protagonisti negli ultimi anni: dalla chiusura del museo al pubblico per consentire le visite private di vip come Mick Jegger o Madonna al fatto che il Comitato scientifico del museo non sia stato convocato nemmeno una volta in tutto il 2021 (fatto grave, se si pensa che fra i suoi vari compiti c’è anche quello di approvare “le politiche di prestito e di pianificazione delle mostre”).

Successivamente Franceschini affronta il tema delle soprintendenze, che la riforma del 2016 ha unificato nella soprintendenza unica: anche qui tutto bene, ma nessun riferimento ai problemi circa la perdita di professionalità a cui tale manovra avrebbe portato, cosi che ad oggi ancora non è chiaro se il Ministero abbia completamente evitato questa triste eventualità.
Non poteva mancare poi il focus sulla questione delle privatizzazioni cioè permettere che alcune categorie di beni culturali siano rimesse all’attenzione di alcuni “mecenati” che concorrono con lo Stato alla tutela e valorizzazione di alcuni di loro, apparentemente senza nulla in cambio tranne che un ritorno d’immagine: Franceschini chiama in causa l’episodio del restauro del Colosseo per opera dell’imprenditore Diego della Valle. Ma come dimenticarsi della deriva che spesso questo tipo di strumenti ausiliari mostrano di raggiungere portando a quello che è un vero e proprio inquinamento della sfera pubblica ad opera del privato, che non esita a mercificare i beni a lui rimessi: è il caso della società American Express che in un’occasione non si è esentata dal proiettare il proprio logo, associato alla scritta “main sponsor” o “sponsored by”, sulla facciata dell’Ospedale degli Innocenti di Flippo Brunelleschi o del Ponte Vecchio a Firenze, scadendo in quello che è uno sfruttamento ignobile dei monumenti e andando del tutto contro le norme del Codice dei beni culturali del 2004 che afferma che ogni iniziativa deve essere “in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare”. La realtà dunque è ben diversa da quella di una pretesa complementarietà fra pubblico e privato, data la molteplicità di episodi che spesso vedono il primo surclassato dal secondo quando invece la formula più giusta sarebbe quella tanto auspicata all’università dal mio insegnante di diritto e gestione dei beni culturali: “mercato quando si può, Stato quando necessario”, anche perché non è raro il fallimento dei privati in molti ambiti del settore culturale. L’elogio del privato ritorna anche quando il ministro parla di alcuni enti fondazionali, come il Museo Egizio di Torino: un’eccellenza, un vanto a livello europeo in grado di dare lustro all’Italia e alle sue politiche di gestione del patrimonio museale. Peccato che in primo luogo il modello fondazionale applicato ai musei si sia spesso dimostrato un grande flop (sarà un caso che in Italia ve ne siano solo due? oltre al già citato Egizio di Torino, il Museo Maxxi di Roma) e in secondo luogo, come riportato dall’associazione Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali “al museo Egizio 160 persone lavorano a cottimo”. In più, molte delle iniziative del museo, come la riduzione del costo del biglietto d’ingresso, gravano sui lavoratori. Lavoratori sottopagati e sfruttati, divisi e umiliati.

Ancora, un importante traguardo del Ministero a detta di Franceschini è quella di aver cacciato le grandi navi dalla Laguna di Venezia, da anni a rischio sia da un punto di vista di conservazione del suo patrimonio storico sia da uno biologico, con la messa a rischio delle varie specie che la abitano. Certo un grande traguardo, ma la rapacità degli investitori turistici che sta svuotando la città? Gli edifici ormai abbandonati trasformati in grandi alberghi con l’unico scopo di voler succhiare fino all’ultimo le potenzialità che una città come Venezia può offrire? Centri storici completamente trasformati, attaccati da speculatori che li mortificano in contesti spesso irreversibili, tutte problematiche portate a galla dal recente studio di Paola Somma Privati di Venezia. La città di tutti per il profitto di pochi (Castelvecchi, 2021).
Gli esempi potrebbero essere ancora tanti: dal settore dello spettacolo ormai in ginocchio e senza ancora adeguate misure di risanamento (soprattutto per quanto riguarda la lirica e le piccole compagnie) alla recente volontà del comune di Napoli di porre nelle mani di una fondazione privata la gestione dell’intero patrimonio storico locale.

Penso alla biblioteca Braidense di Milano o a quella di Bari, costretta a chiudere le sale di lettura per mancanza di personale, stessa sorte toccata al parco archeologico di Sibari. Penso alla legge “Salva Lettura”, che non ha ottenuto i successi sperati, o al glorificato ma inefficiente Art Bonus, che non riesce a contravvenire alle problematiche finanziarie del Ministero. Penso ai capitali spesi per l’inutile piattaforma ItsArt o per il progetto del Museo dell’arte digitale di cui non si sa ancora nulla.
Penso agli archivi costretti a rimanere aperti grazie a precettori di reddito di cittadinanza, surclassando i servizi offerti e la dignità del lavoro culturale. Penso al congelamento della riforma delle professioni turistiche e alla proliferazione di bandi pubblici spesso inadeguati o imbarazzanti come il caso del comune di Sora (Frosinone) che, avendo bisogno di un direttore per il proprio museo civico, non potendo per legge assumere pensionati, decise di aprire il concorso a pensionati che avessero una laurea in archeologia e potessero svolgere il lavoro di direzione gratuitamente.

Ci sono molte ombre sul nostro settore culturale, molti smacchi per il Ministero, diverse manovre non concluse, tanti errori e svariati contesti di nepotismo. L’impegno è fiacco e approssimativo, il lavoro da fare è ancora molto e gli insuccessi sono ormai radicati e stratificati. Dunque da dove deriva la tanta positività che sembra straripare dalle pagine del libro del ministro Franceschini?
Potrà replicare almeno a questo, dato che alla domanda “con la cultura non si mangia?” ancora non si è riusciti a trovare una risposta.

