Per la consuete rubrica di Ritratti d’Autore, ci spostiamo in estremo oriente per parlare di Yasunari Kawabata (1899 – 1972).
Fu uno dei maggiori scrittori della letteratura moderna nipponica nonché primo giapponese a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1968 con la seguente motivazione: «Per la sua abilità narrativa, che esprime con grande sensibilità l’essenza del pensiero giapponese». Kawabata riuscì con i suoi racconti e romanzi a esportare la bellezza del Sol Levante nel mondo.
Nacque il 14 giugno 1899 ad Osaka, a 500 chilometri da Tokyo. Rimasto orfano a due anni trascorse l’infanzia con un nonno semicieco e bizzarro che lo istruì in modo molto originale.
L’educazione del piccolo Kawabata, infatti, fu dominata dall’arte, dall’erboristeria e dalla astrologia; impossibile per lui non farsi affascinare da una cultura così vasta e trasversale. Su tutte, però, la letteratura dominò sempre nel suo animo.
Attraverso poesie, diari e racconti, Kawabata espresse al meglio i suoi sentimenti che alternavano picchi di gioia a profondi baratri depressivi.
A far da padrona di casa in quasi tutti i suoi lavori, troviamo la splendida natura giapponese che abbraccia e ammicca ai protagonisti, con i suoi oleandri dai bianchi fiori, i mandorli (immancabili), le piante di zenzero e giardini rigogliosi che con la loro perfezione sembrano quasi contrapporsi alle tragiche vicende dei personaggi.
Attorno a loro troviamo le tradizioni ferree di questo popolo, primo fra tutti la cerimonia del tè, i preziosi kimono e il misticismo che li lega ai loro defunti.
Non stupisce quindi, la grande fascinazione di questo autore su noi occidentali.
E la morte è un altro elemento che troviamo costantemente nelle opere di Kawabata. Questo perché il nostro non ebbe un’infanzia (e nemmeno un’adolescenza) felice. Sua sorella più grande, che viveva coi nonni materni, mori che lui aveva undici anni.
Poi, quando si ammalò anche il nonno il ragazzino iniziò a scrivere un diario annotando come passava le giornate e tutte le cure che prestava all’adorato parente. Fino alla sua dipartita. Forse (e toglierei il forse) da qui risalgono i traumi di Kawabata che influenzarono la sua psiche con quel senso di perdita e di rimpianto che troviamo nei suoi scritti. I lutti gli avevano fatto cambiare casa di volta in volta e lui stesso si definiva un bambino senza casa né famiglia.
Tutta la mia vita è un eterno vagabondaggio.
Gli mancò sempre il senso di appartenenza a un territorio, un luogo, un tetto. Il che si sposa bene con il credo della cultura giapponese il cui aspetto più peculiare è proprio la provvisorietà della vita che troviamo nell’essenzialità delle case giapponesi. Ecco perché non hanno armadi, né camere da letto.
Comunque, nel 1914 poco prima della morte del nonno, completò Diario di un sedicenne che però venne pubblicato solo nel 1925. In esso Kawabata riproduce le atmosfere di quel periodo.
Rimasto solo, si trasferì nel dormitorio scolastico di Osaka, vicino alla scuola. Nel 1917 si diplomò e, manco a dirlo, muore il suo mentore e professore Ichiro Kurasachi. Sulla stele funebre Kawabata fece scrivere una frase di Confucio: L’amicizia attraverso la letteratura.
Questo suo essere un habitué di eventi luttuosi gli valse il soprannome Maestro di Funerali. Che gli calzava a pennello con buona pace della sua popolarità.
Per scrollarsi tutto di dosso, si recò nella penisola di Izu. Le sue peregrinazioni lo portarono a conoscere una banda di attori girovaghi che gli ispirò il fortunatissimo racconto autobiografico La danzatrice di Izu. Ed è proprio in questo momento storico che si forma tutta la poetica di Kawabata, quel senso di “impegnato distacco” che lo accompagnerà per tutta la sua lunga esistenza.
Al ritorno si trasferì a Tokio in uno dei più prestigiosi atenei: First High School sotto la direzione dell’Università Imperiale. Qui Kawabata fondò insieme a un nutrito gruppo di giovani autori, un movimento d’avanguardia noto come Shinkankakuha che si proponeva di cogliere la realtà attraverso l’immediatezza delle sensazioni. In soldoni vuol dire: cogliere istintivamente il senso della vita perché la realtà si percepisce per istinto prima ancora che coi sensi. Una sorta di movimento d’avanguardia sul filone di quelli occidentali.
Per un po’ va tutto bene. Il nome iniziò a circolare negli ambienti e lui conobbe e diventò amico di Kikuchi Kan, il suo mecenate. Soprattutto Kawabata si innamora. Lei era una cameriera di quattordici anni per di più orfana. Irresistibile per lui.
Metti la tua anima nel palmo della mia mano perché io la possa guardare come un gioiello di cristallo e io descriverò la tua anima con poche parole.
In prossimità delle nozze, però, la fidanzata lo piantò in asso. Pare che avesse perso la verginità a causa di una violenza sessuale. Anche questa vicenda segnò il già tormentato Kawabata che affondò la penna nel pessimismo più nero.
Grazie a Kikuchi, venne introdotto nel mondo letterario delle riviste Shinshicho e Bungei shunju, diventandone redattore.
In questi anni pubblica moltissimi racconti, per lo più brevi, in cui l’autore impresse il suo marchio di fabbrica: laconico, cristallino ma pieno di suggestioni e di evocazioni. A questa forma letteraria rimase sempre particolarmente affezionato. Saranno tutti raccolti nell’antologia: I racconti in un palmo di mano.
Nel 1923, il nostro, assistette al grande terremoto che rase completamente al suolo Tokyo e dintorni. Figlia di quest’epoca è Uccelli e altri animali, opera nella quale si riflette la consapevolezza dell’autore della tragicità e crudeltà della vita.
Contemporaneamente cominciò a viaggiare per tutto il Giappone. Sposa Matsubayashi Hideko da cui ebbe una figlia, morta prematuramente.
Nel frattempo i coniugi si erano trasferiti nel quartiere Asakusa di Tokio. Qui Kawabata scrisse La banda scarlatta di Asakusa. Ecco, se volete immergervi nelle atmosfere giapponesi degli anni trenta, tra feste tradizionali e balle di jazz e charleston, questa è la raccolta che fa per voi. E del resto era un momento particolarmente denso di avvenimenti in cui il Giappone si affacciava all’occidente e viceversa. Kawabata cercò sempre di rimanere al di fuori della politica, anche dopo il secondo conflitto mondiale e nonostante le pressioni di governo e letterati.
Il suo romanzo più importante rimane: Il paese delle nevi, che subì continui ritocchi fino all’edizione definitiva del 1948. Narra l’impossibile storia d’amore tra una geisha e un ricco borghese. Ma è con il romanzo Mille Gru (1952), che Kawabata si impose all’estero e contribuendo a formare in Occidente l’immagine delle tradizioni e della poetica giapponese. Una donna invita il giovane Mitani Kikuji a una cerimonia del tè in un padiglione del tempio con l’intento esplicito di fargli conoscere una ragazza in cerca di marito. Per quanto la cerimonia del tè sia l’elemento principale del romanzo, Kawabata disse:
«È un errore leggere il mio romanzo Mille gru come una descrizione della bellezza della cerimonia del tè, nella forma e nello spirito; al contrario, si tratta piuttosto di un’opera negativa, colta a esprimere dubbi e a mettere in guardia contro la volgarità che pervade questa cerimonia nel mondo d’oggi.»
Ci sarebbe molto altro da dire sui libri di Yasunari Kawabata e sulla sua visione zen del mondo e sull’erotismo dei suoi romanzi. Vi invito a leggere La casa delle belle addormentate, in cui troviamo molte di queste tematiche.
Dopo una vita prolifica in cui si era dedicato allo sviluppo dei rapporti culturali con l’estero, venne trovato morto, con un tubo di gas in bocca, il 16 Aprile 1972, a quasi 73 anni.

