Lo spot girato il 5 luglio in piazza Alberica è l’ennesimo affronto alle politiche sui beni culturali
Sono stati gli antichi greci ad inventare la piazza, come spazio tra i più adatti ad ospitare le pretese della forma politica che gli antichi ritenevano più nobile: la democrazia. La piazza pubblica è un’entità che si è evoluta nel tempo, dalla piazza mercato si è passati alla piazza monumento fino ad arrivare alle recenti piazze contemporanee.
In millenni di storia tuttavia, nonostante cambiassero la morfologia ed alcuni caratteri costitutivi della piazza, essa ha mantenuto costante quell’idea di spazio pubblico che l’aveva accompagnata a partire dal cosiddetto alto medioevo ellenico.
E prima? Fino all’XI secolo la cittadinanza si radunava attorno al palazzo del sovrano e solo con il primo apparire delle città indipendenti (polis) si incominciò a sentire il bisogno di incontrarsi, riunirsi e discutere.
La piazza è dunque uno spazio politico e dialogico secolare, un centro di aggregazione per la cittadinanza che fa sì che il suo valore vada oltre quello storico e artistico e scada in quello prettamente politico e civile. La piazza ancora oggi è sede di manifestazioni, flashmob, iniziative culturali, eventi e incontri di varia natura.
Che in Italia i beni culturali, comprese le piazze, siano sottoposti a tremendi sdilinquimenti è ormai fatto quotidiano: penso all’affitto di Ponte Vecchio a Firenze per ospitare una cena legata ad una manifestazione delle Ferrari nel 2013 o al recente caso, sempre fiorentino, che ha visto American Express proiettare il proprio logo sulla facciata dell’Ospedale degli Innocenti bombardando di pubblicità autoreferenziale la stupefacente opera di Filippo Brunelleschi.
Insomma, nel lontano 2013 un cittadino fiorentino che avesse voluto attraversare come ogni giorno Ponte Vecchio sarebbe stato rispedito indietro perché quello che è uno dei simboli più importanti di Firenze era stato completamente monopolizzato dalla cena della Ferrari.
Da cittadino di Carrara mi sono trovato nella stessa imbarazzante situazione il 5 luglio 2022: come ogni mattina, per raggiungere la fermata dell’autobus da casa mia, sarei dovuto passare per piazza Alberica, una delle più belle della città caratterizzata da una sintesi molto particolare di architetture rinascimentali e barocche, invece mi sono trovato di fronte un assistente di una troupe televisiva che mi ha chiesto garbatamente di fare il giro della piazza. Si girava quella mattina uno spot televisivo per Dazn, noto servizio streaming di eventi sportivi a pagamento, con protagonista Diego Abatantuono e Diletta Leotta.
“La piazza siamo noi” è solito ripetere lo storico dell’arte Costantino d’Orazio, è lo specchio della nostra cittadinanza e il crogiuolo dove si annidano i valori di un’intera civiltà, per questo la scelta di girare lo spot in una delle piazze principali della città vietando il transito ai cittadini dalle 10.00 alle 17.00 è un’operazione intrinsecamente sbagliata perché dimostra ancora una volta il mancato rispetto del nostro patrimonio culturale e sdogana l’idea che i soldi possano comprare qualsiasi cosa, anche a scapito della Costituzione, del Codice dei Beni Culturali e dei nostri diritti fondamentali.
La colpa non è di Abatantuono tanto meno della troupe implicata nel progetto, ma di un sistema malato e marcio che ormai non ha più freni, decoro o misura e pensa che tutto gli sia dovuto in barba ai cittadini e ai valori condivisi, a secoli di storia e di sedimentazioni culturali e che in nome di un potere economico e d’immagine impone all’intera cittadinanza il divieto di attraversare una delle sue piazze più belle, o una strada storica o di entrare in una chiesa antica (come sta accadendo sempre più frequentemente in varie parti d’Italia).
Da giovane e aspirante storico dell’arte, e soprattutto da cittadino, non posso tacere di fronte ai soprusi a cui sono sottoposti i nostri beni culturali e artistici, soprattutto se avvengono nella città dove vivo da anni. Non posso far finta di nulla dinnanzi alla mortificazione che subiscono i nostri spazi e beni pubblici, cioè opere e monumenti che sono di diritto dei cittadini, che non operano differenze di classe, non separano e non dividono, ma accolgono tanto i meno abbienti quanto i ricchi e i padroni. Questo è il senso più profondo di ciò che nel Medioevo si chiamava bonum commune, il bene comune: perché alla portata d tutta la cittadinanza, non di pochi oligarchi che pretendono di farne ciò che vogliono. Perché il rischio è di tornare all’XI secolo: i curiosi che ho visto accalcarsi intorno alla piazza senza poter entrare per volontà di un potente ricordano tanto gli antichi micenei che si aggregavano intorno al palazzo del sovrano, prede dell’ingerenza del più forte e vittime di un tempo che non conosceva la democrazia.
La stessa che oggi troppe volte dimentichiamo.
