Il successo come arma di autodistruzione: Elvis è un tripudio camp che scardina le regole del biopic
Che il regista australiano Baz Luhrmann sia solito dissacrare i soggetti dei propri film è ormai risaputo: è lui il regista del trashissimo Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996) o dell’atipico musical Moulin Rouge! (2001), film nei quali Luhrmann ha fatto del kitsch e del camp due elementi estetici ricorrenti. Le sue opere sono sempre eccentriche, esplosive, mirabolanti, sfavillanti, telluriche, sia che si tratti di una sceneggiatura tratta da un’opera del Bardo sia che abbia a che fare con un soggetto derivato da La Traviata di Giuseppe Verdi. Luhrmann è uno di quei registi che o si ama o si odia, che può essere tanto geniale quanto irritante, che non mette mai d’accordo critica e pubblico ma che nella sua breve filmografia (Elvis è il suo sesto lungometraggio in trent’anni di carriera) conta una costellazione di pietre miliari del cinema postmoderno.
Era da circa dieci anni che Luhrmann non tornava dietro la macchina da presa. Un silenzio logorante che è stato ripagato dal suo invito al Festival di Cannes 2022 con il suo ultimo film ispirato alla vita del cantante e icona americana Elvis Aaron Presley.
Elvis narra la storia dell’artista di Memphis, interpretato dal giovane Austin Butler, dalle origini sino alla morte avvenuta improvvisamente a 42 anni e lo fa dal punto di vista del suo manager Tom Parker (Tom Hanks), che secondo alcuni avrebbe decretato tanto il suo successo quanto la fine della sua carriera.
Durante il racconto, il regista sfida le possibilità di visione dello spettatore, attraverso un corredo visivo esagerato, esorbitante e strabordante che mette a dura prova la sua attenzione: si viene tanto ammaliati quanto respinti dal tripudio di luci, lustrini e pailettes, in un meccanismo centrifugo e centripeto che coniuga un’esibita vena kitsch con i caratteri dell’estetica rock, tanto che alcuni critici francesi hanno definito il suo film “uno tsunami rococò”.
Tutto ciò ha l’unico scopo di costruire quella che è una parabola amara dedicata alla fama e al successo che tuttavia non segue le regole classiche del biopic: Luhrmann fa implodere le sue strutture formali e narrative, facendo di conseguenza deragliare i nostri sensi in quello che si mostra ai nostri occhi come una festa camp dove il successo e la fama tanto anelati si trasformano in una fatale arma di autodistruzione.
Butler è sorprendente nella sua capacità di interpretare il protagonista alla luce di due punti di vista prevalenti: quello pubblico, che si dimena sul palco ancheggiante, che eccita le fans e raccoglie reggiseni sul palcoscenico, e quello domestico, l’Elvis intimo, marito di Priscilla Presley (Olivia DeJonge) e padre di Lisa Marie.
Tutto il film è giocato su questi due diversi piani che riassumono l’immagine di Elvis e trovano una loro coerenza nella figura antitetica del colonnello Parker: Tom Hanks è inarrivabile nella sua interpretazione di un personaggio tanto astuto quanto sgradevole, carismatico ma allo stesso tempo ambiguo. Hanks, volutamente ingrassato e coperto da chili di make up, dà vita ad una figura dal passo claudicante combattuta dall’affetto per “il suo ragazzo” ma anche da una viscida vena manipolatrice dalla quale il cantante non sarà mai in grado di svincolarsi.
Ed è questa la tragedia più grande della storia di Elvis: lui e Parker sono simili, si compenetrano a vicenda, sono “entrambi bambini soli alla ricerca dell’eternità” come dirà lo stesso colonello al suo beniamino. La differenza sostanziale fra i due personaggi è che se Parker ricerca la sua eternità nel denaro, Elvis la scopre nel pubblico, nei suoi ammiratori, nelle fans urlanti dei suoi concerti: non è un caso se dopo le sue esibizioni Elvis chiedesse sempre di accendere le luci in sala: “Avete visto me, ora sono io che voglio vedere voi” dice il protagonista in una scena del film. Elvis non può stare senza pubblico perché esso è lo specchio in cui ritrovare la propria identità, l’appiglio che permette la sua riemersione dal buio delle delusioni della vita privata. È l’amore per il pubblico che riesce a salvarlo ed è l’amore per il pubblico che lo porterà all’autoannientamento. Elvis guarda solo al pubblico, non è attratto da altro, nemmeno dalla Storia che più volte travolge la sua vicenda: nella partitura visiva del film irrompono così l’assassinio di Martin Luther King e Bob Kennedy, i movimenti studenteschi e l’esordio dei Rolling Stones, ma tutto ciò non sembra mai realmente toccare il suo racconto.
Magistrale anche la colonna sonora, come di norma nei film di Luhrmann, che conta su collaborazioni con svariati artisti: da Eminem a Chris Isaak fino ai Maneskin.
E non poteva essere secondaria la musica in un film dedicato ad uno dei fenomeni pop più conosciuti al mondo e che dal mondo ha cercato di difendersi senza mai parlare, senza mai ribattere, ma solo cantando.
