Comicità, sentimenti e colori: l’eroe Marvel viene completamente reinventato alla luce della riscrittura già operata da Taika Waititi in Thor: Ragnarok (2019)
Baz Luhrmann, Xavier Dolan, Sam Raimi, Sion Sono, sono diversi i registi che hanno fatto dell’estetica camp e trash non solo un elemento formale ma anche un aspetto narrativo. Sulla stessa linea d’onda si situa il regista, sceneggiatore e attore neozelandese Taika Waititi già ammirato per What we do in the Shadows (2019 -), esploso con Thor: Ragnarok (2019) ed elogiato per Jojo Rabbit (2019). Già nel precedente capitolo dedicato al dio del tuono Waititi si era pienamente discostato dalla lettura dark e introspettiva percorsa dai suoi colleghi nei due primi film stand alone: sia Thor (Kenneth Branagh, 2011) che Thor: The Dark World (Alan Taylor, 2013) infatti hanno ottenuto accoglienze molto fredde tanto dalla critica quanto dal pubblico. Il destino del dio asgardiano sembrava segnato, almeno fino all’uscita di Thor: Ragnarok (Taika Waititi, 2019): per la prima volta nella storia dell’MCU la vena comica conquistava il primo posto e l’aspetto estetico abbandonava l’ingombrante atmosfera amletiana dei film precedenti per lasciare spazio ad una rilettura completa del personaggio e del franchise: convinto che Thor non si potesse approcciare in modo tradizionale, Waititi propose una lettura più spavalda, fresca e multicolore che in Thor: Love and Thunder viene portata alle massime possibilità espressive. Per questo chi ha amato il film precedente impazzirà per Thor: Love and Thunder, mentre i puristi non potranno sopportare la dissacrazione operata sul personaggio interpretato da Chris Hemsworth.
La trama è presto detta: un nuovo villain porta scompiglio e morte nei Nove Regni di Asgard con lo scopo di trucidare ed estinguere ogni divinità; si tratta di Gorr il Macellatore di Dei (Christian Bale), che riesce a dare scacco matto al figlio di Odino che si vede costretto a organizzare una squadra atta a fermarlo e della quale farà parte anche la sua ex fidanzata Jane Foster (Natalie Portman).
Se in Thor: Ragnarok Waititi peccava di una sostanziale gestione dei tempi, lo script del nuovo film si struttura molto bene dando spazio anche ad un antefatto che racconti in breve le origini e le ragioni di Gorr, anche se in generale non è infrequente riscontrare buchi di trama, ridondanze e incongruenze. Gli sceneggiatori – lo stesso Waititi insieme a Jennifer Kaytin Robinson – calcano la mano sulle scene d’azione folli e brillanti e sul lato comico e satirico, con una varietà di battute alla National Lampoon che talvolta scadono volutamente nel trash puro: il personaggio di Korg (Taika Waititi) per esempio ha alcune delle battute peggiori del film, mentre l’inserimento esilarante delle due capre urlanti (consapevole omaggio ad un famoso video di YouTube) che trainano il veliero di Thor rientra fra gli elementi comici più riusciti del film.
Come ho anticipato all’inizio, Waititi fa proprio uno stile pop e camp che si esplicita rafforzando il corredo visivo del film: quella del regista non si definisce come cinefilia, ma si può considerare una straripante vena postmoderna capace di inghiottire e rielaborare molteplici stimolazioni estetiche e visuali impiegate per la messinscena. Così appaiono chiari i riferimenti a Star Wars (George Lucas, 1977) e Star Trek (Gene Roddenbarry,1966 -69) ma anche a Cocktail (Roger Donaldson, 1988) e Beetlejuice (Tim Burton, 1988) ed infine a molti film precedenti dell’MCU in chiave strettamente autoreferenziale. I colori, l’estetica e l’esplosiva morfologia del film non sono tuttavia privi di qualche pecca soprattutto a causa della computer – grafica (così le pietre che costituiscono il corpo di Korg appaiono a tratti grigie e in altri punti con sfumature blu), su cui si può sorvolare in parte grazie alla bellezza della fotografia.
La recitazione è sopraffina e sopra le righe: Hemsworth si trova ormai a suo agio nelle vesti del figlio di Odino e meriterebbe di essere valorizzato anche in altri ruoli (l’attore ha spiccato recentemente come protagonista nell’ultimo thriller di John Kosinski, Spiderhead, 2022, disponibile su Netflix). Lodevole Natalie Portman nel ruolo di Jane Foster alle prese con le sue nuove capacità che le consentono di brandire il Mjolnir, il martello magico di Thor, e superlativo il cattivo di Christian Bale, fra i punti di forza dell’intero film.
A completare una regia tanto spavalda contribuisce anche una colonna sonora straripante che accompagna l’avventura del dio del tuono e dei suoi compagni al ritmo di alcuni dei pezzi migliori dei Guns ‘n Roses fra i quali Welcome to the Jungle, Sweet child ‘o Mine e November Rain.
In conclusione Thor: Love and Thunder diverte, intrattiene, sorprende per circa due ore e sviluppa un film dalla grande libertà registica che si connota di tanti punti di forza e di alcuni più deboli, di molte ottime scelte e altre meno apprezzabili ma in parte trascurabili se si pensa che il quarto film su Thor non si sarebbe dovuto nemmeno produrre: l’incarico da Kevin Feige è arrivato inaspettato a Waititi che ha colto subito l’occasione ma ha dovuto escogitare nuove strategie pur di non essere ripetitivo, evitando di dirigere ciò che avrebbe potuto rivelarsi una costola di Thor: Ragnarok che nulla avrebbe aggiunto tanto al personaggio quanto all’universo Marvel.
Inoltre, a questa altezza della Fase 4 dell’MCU si può constatare non solo che l’apporto di registi di alta caratura abbia apportato ingenti benefici alla filmografia ma anche come ciò abitui il pubblico a generi ed esperienze cinematografiche diversificate: dopo il riflessivo e filosofico Eternals è stato il momento dell’epopea horror di Doctor Strange in the Multiverse of Madness ed infine del comico e rutilante Thor: Love and Thunder. Quello che sembrava un auspicio sembra essersi tradotto in una prassi ormai tipica di casa Marvel.
