Per la rubrica Ritratti d’Autore oggi parliamo di Edmondo de Amicis (1846-1908).
Noi boomer (ma soprattutto i nostri genitori e nonni) abbiamo versato fior di lacrime leggendo le gesta della Piccola vedetta lombarda o del Piccolo scrivano fiorentino che, di nascosto, aiutava il babbo a racimolare qualche spicciolo in più per la famiglia. E vogliamo parlare di Marco che cerca sua madre Dagli Appennini alle Ande?
De Amicis è stato un militare, un giornalista, un pedagogo, un linguista e uno scrittore. Venne definito l’ultimo dei manzoniani, poeta della fratellanza e della bontà. Che come epitaffio non è male.
Peccato che tra le mura domestiche fosse una vera canaglia.
Di famiglia benestante, Edmondo de Amicis, trascorse la giovinezza tra la sua casa a Imperia e quella di Cuneo, città da lui fortemente amata.
Terminò gli studi all’Accademia Militare di Modena ne 1865 e ne uscì col grado di sottotenente. Giusto in tempo per la battaglia di Custoza, dove l’esercito italiano le prese di santa ragione. La disciplina e il rigore dell’esercito, però, gli piacevano. Dalla sua esperienze, scrisse e pubblicò una serie di bozzetti e vicissitudine militari, dal titolo: La vita militare (1868).Visto il successo, gli venne voglia di dedicarsi alla scrittura, per la quale aveva già mostrato una certa attitudine. Così abbandonò l’esercito per diventare corrispondente de “La Nazione” con la quale partecipò alla spedizione di Roma passando per Porta Pia. Avete presente la famosa breccia? Era quella. Il 20 settembre 1870, l’esercito piemontese entrò in città determinando la fine dello Stato della Chiesa.
Ma questo è solo il primo dei molti viaggi di de Amicis. Il successivo decennio, si trasforma in Guida Michelin e pubblica i romanzi: Spagna, Olanda, Ricordi di Londra, Marocco, Costantinopoli, Alle porte d’Italia e Sull’Oceano, quest’ultimo dedicato agli emigranti italiani in America. In esso, l’autore, descrive la miseria e la tenacia dei nostri avi, costretti dalla fame ad abbandonare la terra natale. Tra l’altro il tema dell’emigrazione dall’Italia, era particolarmente sentito visto che incideva profondamente sulle sorti demografiche ed economiche del nostro paese.
Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora (…). La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti (…) quasi tutti tenevano sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra.
Il vantaggio era che i nostri nonni invece che sui gommoni, viaggiavano col piroscafo.
Stufo di fare il piccione viaggiatore, rientra in Italia e si ricicla molto validamente come pedagogo dedicandosi alla letterature educativa. Ed è proprio in questo campo che sforna il suo capolavoro: Cuore, nel 1886. Il libro è strutturato come un diario tenuto da un bimbo di 8 anni, Enrico Bottini, che ci racconta le vicende dell’anno scolastico 1881-82 in una scuola torinese.
L’Unità d’Italia è fatta da poco, sulla carta, ma le differenze sono tantissime. E qui entrano in scena memorabili protagonisti, ognuno chiamato a fungere da categoria sociale. Garrone è l’archetipo della classe operaia franca e onesta, Derossi è l’esponente illuminato di una classe agiata, il perfido Franti (che faceva dannare la sua povera mamma) da buon cattivo, scompare. Anche i maestri rientrano in questa chiave di lettura: essi sono per de Amicis un modello di integrità morale.
Lo stile è semplice, senza ridondanze letterarie (per il tempo, almeno) lo rese adattissimo al pubblico.
In tutti i racconti, prevalgono sentimenti di patriottismo, orgoglio, onore, rispetto e lealtà verso se stessi, la famiglia e gli amici. Tutti ideali che si rifanno molto al Risorgimento Italiano e assai poco alla chiesa cattolica. E infatti il romanzo venne criticato dalla curia perché i protagonisti morivano per la patria, ma non festeggiavano il Natale. Alcuni critici poi, accusarono de Amicis di aver sostituito il cattolicesimo con la religione laica della Patria, la Chiesa con lo Stato, chiamato il fedele con l’appellativo di “cittadino”, scambiato i Comandamenti con i Codici, il Vangelo con lo Statuto e indicato gli eroi come esempi al posto dei martiri. Insomma… ce n’era abbastanza per tacciarlo di massoneria.
In realtà il nostro, era molto vicino al socialismo umanitario di Filippo Turati. Una volta bypassate le idee nazionaliste, collaborò con giornali legati al Partito socialista come la Critica Sociale e La Lotta di classe, ritenendo suo dovere porre l’accento sulle fasce sociali più deboli, tra cui figuravano (e figurano tuttora) gli insegnanti.
Nel 1890 pubblica Il romanzo di un maestro, cui segue La maestrina degli operai in cui denuncia l’arretratezza culturale e le precarie condizioni di chi era chiamato a istruire i nuovi italiani (chissà cosa direbbe oggi, 132 anni dopo) o la complessa realtà delle grandi fabbriche di cui Torino, una volta, era vanto. Come dire: Abbiamo fatto l’Italia, si tratta adesso di fare gli italiani.
Sull’onda dei nuovi ideali politici, comincia la stesura di un romanzo smaccatamente politico, intitolato Primo maggio, che dovrà abbandonare per i timori della moglie, preoccupata di veder compromessa la rispettabilità borghese della famiglia a causa delle idee del marito.
Venne comunque pubblicato postumo.
E se il lato pubblico di questo scrittore era ammantato di nobiltà d’animo, non così la sua vita privata.
Edmondo era attaccatissimo a sua madre, e quando si sposò con Teresa Boassi nel 1875, impiegò molto tempo prima di presentare le due primedonne. E già qui i campanelli d’allarme dovevano suonare forte e chiaro. A naso, pare che tra le due donne non sia mai corso buon sangue. Strano.
La novella signora de Amicis, di due anni più grande, dava l’idea di una donna calma e mansueta (all’inizio), amante della casa e della famiglia (sempre all’inizio). Tuttavia, esaurita la passione verso la moglie, de Amicis diventò collerico, aspro e violento. Non solo la tradiva pubblicamente (contrasse persino una malattia a trasmissione sessuale) ma si divertiva ad umiliarla; in un’occasione, le lanciò contro un forchettone, mancandola. E qui le campane suonavano ormai a morto.
La Boassi, dopo un po’ dovette stufarsi di fare la parte della pia donna; limò bene denti e lingua e, usando lo pseudonimo di Calista, scrisse un romanzo al vetriolo in cui raccontava la quotidianità di suo matrimonio. Lo intitolò “Conclusione” dedicandolo a tutte le martiri…
Ero persino obbligata ad affrettare il passo e sparire, se per caso lo avessi incontrato per via. Allora egli mi faceva tremare; ed obbedivo anche a quell’ ordine come se fossi stata una donna indegna
Il matrimonio andò avanti a suon di urla, scenate e botte fino al 1889 quando un agente intervenne per aiutare lo scrittore a recuperare i suoi oggetti personali dalla casa coniugale dalla quale fece fagotto. I due coniugi poi si rividero, ma in tribunale. Ancora oggi non è ben chiaro se Teresa Boassi fosse vittima oppure, anche un po’ carnefice.
Nemmeno l’arrivo dei due figli era riuscito a portare l’armonia in casa. Si dice che Edmondo li amasse profondamente, eppure il primo, Furio, si suicidò con una pistola nel parco del Valentino 22 anni mentre il secondo abbandonò la casa paterna a soli quindici.
Sospetto che de Amicis non abbia preso casa sua a modello per le sdolcinate storie del libro Cuore.
La Boassi, passò anni ad accusare il marito per il suicidio del figlio, gli rimproverò tutto, anche i suoi ideali socialisti, o il fatto che, incurante del dolore, avesse continuato a scrivere come se nulla fosse accaduto.
Provato dalla perdita del figlio e dalla morte della madre, Edmondo de Amicis si spense a Bordighera a 62 anni. La cospicua eredità, invece fu al centro di un giallo mai chiarito. Doveva essere destinata in opere pie, invece fu oggetto di un’opera pija da parte di parenti e imbroglioni. Non se ne seppe più nulla.
