Alieni, scimpanzé assassini e l’orrore dello Star System: Peele costruisce un meccanismo metacinematografico dove spiccano due sbalorditivi Keke Palmer e Daniel Kaluuya
[Recensione spoiler]
“Individuiamo una funzione metacinematografica ogniqualvolta un film accenna – anche in maniera metaforica – alle caratteristiche del cinema come tecnologia o come macchina testuale (dunque mettendo in scena temi come la riproduzione di immagini in genere, lo sguardo e l’occhio, la simulazione e la fiction, la dialettica esibizionismo/voyeurismo, attorialità/spettatorialità, eccetera”). Le parole dello studioso di teorie e linguaggi del cinema Marcello Walter Bruno (purtroppo recentemente scomparso) tratte da una sua bellissima monografia dedicata al cinema di Stanley Kubrick rappresentano l’adeguato punto di partenza per enucleare le scelte tematiche operate da Jordan Peele nel suo terzo ed ultimo film, dopo il successo ottenuto con Scappa – Get Out (2017, che valse al regista l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale) e Us – Noi (2019).
Daniel Kaluuya interpreta OJ Haywood, proprietario di un ranch e addestratore di cavalli da gestire per produzioni cinematografiche e televisive. Dopo la morte del padre, avvenuta apparentemente per la caduta di alcuni detriti dal cielo, OJ rileva l’attività di famiglia insieme alla sorella Emerald (Keke Palmer), che si trasferisce dal ragazzo. Negli stessi giorni, eventi misteriosi e paranormali si verificano intorno alle zone della casa: prima scompaiono alcuni cavalli, poi il pubblico stagionale del Jupiter’s Claim, locale parco di divertimenti a tema western, sparisce nel nulla mentre detriti e sangue piovono dal cielo. I due fratelli insieme all’amico Angel (Brandon Perea) scopriranno che la causa delle sparizioni è un misterioso animale volante dalla forma di un UFO che inghiotte tutto ciò che trova a terra.
Peele mostra nel suo ultimo lavoro di avere una padronanza e un grado di autocritica del mezzo cinematografico sbalorditiva, mentre la costruzione dello script e lo svisceramento dei diversi sottotemi è straordinariamente matura e funzionale. Ancora una volta il regista (anche sceneggiatore e co – produttore) realizza uno script dalla rara originalità e capace di andare oltre gli stilemi del genere filmico prescelto: Nope non è un horror, ma nemmeno uno sci – fi o un western; è contemporaneamente tutti e nessuno di questi generi classici hollywoodiani, che il regista apre e richiude a suo piacimento con l’unico scopo di edificare una grande riflessione attorno allo stato di salute del cinema e dell’attuale studio system.
Peele compone così un vibrante affresco delle condizioni del cinema contemporaneo, vessato dalla bassa frequentazione delle sale da parte del pubblico e dall’imperversare dei servizi streaming. I tasselli che rimandano a questa complessa visione autoriflessiva sono diversi: i due fratelli si chiamano Haywood (l’assonanza con Hollywood viene spontanea) e vivono in una casa caratterizzata da uno stile a metà fra la dimora della serie La casa nella prateria (1974 – 83) e quella di Norman Bates in Psyco (Alfred Hitchcock, 1960), lavorano per produzioni cinematografiche e televisive e la stessa Emerald afferma di essere imparentata col fantino che galoppa nei fotogrammi di The horse in motion (1878), il primo esperimento di immagine in movimento ad opera di Eadweard Muybridge (e che costituisce una chiarissima dichiarazione di poetica).
Quella di Peele è una raffinatissima critica al modo di fare e fruire cinema nel XXI secolo e il gigantesco mostro che inghiotte il pubblico del Jupiter’s Claim non è altro che una metafora per indicare l’onanismo sfrenato di un sistema, quello televisivo e dei servizi streaming, che sta uccidendo il cinema nelle sale e l’aura dell’arte cinematografica stessa e che si trasforma in un tipo di esperienza spettatoriale che banalizza i film e la loro fruizione, si pone dalla parte di chi vuol far soldi e si rende incapace di soddisfare il pubblico contemporaneo, esso stesso non più in grado di addomesticare le forze estetiche che soggiacciono alla base del medium filmico: ci ha provato la televisione, ma è andata male (a questo fa riferimento l’episodio apparentemente svincolato dalla storia principale che funge da prologo e che racconta l’incidente accorso agli interpreti di una nota sitcom massacrati da uno scimpanzé fuori controllo), ci provano ora i vari siti o piattaforme streaming rappresentate dal gigantesco mostro che nel finale, dopo che OJ cercherà invano di domarlo, finirà per implodere dopo aver ingoiato un pallone aerostatico.
Sarà questo il tragico destino dei servizi streaming?
Nel frattempo Peele fornisce anche una soluzione per risollevare le sorti del cinema: tornare a renderlo un’arte artigianale, manuale, sperimentale (proprio come nel periodo storico del primitive cinema in cui visse e operò Muybridge, che fu anche scienziato). Un cinema che accantona CGI e green screen e torna alla pellicola (lo stesso Nope è girato in pellicola IMAX) che guarda caso è l’unica in grado di riprendere il mostro del film (al cui passaggio saltano tutti gli apparecchi elettronici). Un cinema che rimetta al centro gli attori, proprio come i due protagonisti Daniel Kaluuya e Keke Palmer che offrono in questa occasione due delle loro migliori interpretazioni. Solo così il sistema hollywoodiano eviterà di fare la fine del mostro, solo dandosi dei limiti e rinunciando a voler “filmare l’impossibile” (come afferma il personaggio di Michael Wincott).
Nope è sicuramente una delle proposte più sorprendenti della stagione estiva, un’opera intrinsecamente metacinematografica nell’accezione che ne dava Marcello Walter Bruno, un’ottima prova d’autore che conferma per la terza volta l’inconsueta rarità e preparazione di un artista come Jordan Peele.