Con la scomparsa di Godard si chiude definitivamente il Novecento, un evento che ci ricorda la (ir)ragionevolezza che ci porta ad amare il cinema
Di quella straordinaria stagione che fu la Nouvelle Vague francese e che vide fra i suoi principali fautori François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Alain Resnais, Louis Malle e tanti altri, Jean – Luc Godard ricopre sicuramente il ruolo di capofila. Molti l’hanno spesso additato come padre del movimento francese, e questo grazie ad un film del 1960 con protagonista Jean – Paul Belmondo.
Mi permetto di aprire una piccola parentesi personale: A’ bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), che spalanca le porte al cinema moderno e si impone come aprifila delle opere della Nouvelle Vague, è uno di quei film che mi hanno cambiato radicalmente l’esistenza, che mi hanno reso chiara e vivida la possibilità che un “altro” cinema fosse possibile, che arrischiarsi in territori inesplorati uscendo da solchi della tradizione fosse un atto necessario e suo modo politico. Pochi altri film, forse Il Vangelo secondo Matteo (Pier Paolo Pasolini, 1964) e Quarto Potere (Orson Welles, 1941), sono stati capaci di innescare in me uno shock visivo così perturbante.

Fino all’ultimo respiro racconta una storia apparentemente semplice, rielaborata a partire dal genere del noir americano: Michel (Jean – Paul Belmondo) uccide un poliziotto e chiede rifugio alla fidanzata Patricia (Jean Seberg). Mentre si nasconde, egli cerca di racimolare il denaro necessario alla sua fuga.
Con questo film, Jean – Luc Godard ci ha abituato ad un cinema anarchico, libero, sciolto dalle catene delle convenzioni formali e mosso da “passione e ideologia”. Non si possono scordare nel film la narrazione frammentata, la costruzione di un’immagine discontinua messa in crisi da un montaggio frenetico, gli accorgimenti tecnici mutuati dalla storia del cinema passato (come l’uso dell’effetto iride o iris shot, un genere di transizione usata spesso dal cinema muto). Non si può non accorgersi della consapevolezza critica che caratterizza l’autorialità di Godard, cinefilo incallito e strenuo fagocitatore di classici del cinema. In questo sta la vera rivoluzione della Nouvelle Vague: la prospettiva riservata alle opere filmiche del passato, guardate come modelli su cui basare la propria preparazione. Il cinema precedente come bacino di possibilità espressive da cui poter ripartire per costruire il proprio percorso critico.

Sono anni straordinari in cui il cinema compie il suo “passaggio all’età adulta” (François Truffaut), dove il regista, grazie alla politique des autores, rivendica il ruolo intellettuale che gli è proprio; un periodo dove la scrittura critica evolve dando vita a esperienze irripetibili come i Chaiers du Cinema, destinata a diventare una delle riviste di cinema più importanti al mondo.
Godard faceva parte di questa stagione. Scomparso Godard è scomparso per sempre anche quel mondo ed è per questo che il critico cinematografico Gianni Canova ha affermato che con la morte del regista francese si è “concluso definitivamente il Novecento”.
Ciò che mi fa più paura non è però il grande vuoto che questo cineasta ha lasciato e che, ça va sans dire, non potrà mai essere colmato, quanto invece l’inesistenza di una generazione che possa veramente comprendere lo statuto di Jean – Luc Godard. Chi ha più visto Il Disprezzo (Le Mépris, 1963)? Chi si è emozionato con Band à Part (1964)? Chi ha colto il “ritratto femminile più bello della storia del cinema” (Steve della Casa) che Godard affresca in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962)?
Ma senza Godard non avremmo avuto Francesco Rosi, Bernardo Bertolucci, non ci sarebbero stati il Nuovo Cinema tedesco o il Cinema Novo brasiliano.
Mi chiedo perché quando decede un grandissimo monarca inglese lo di addita come icona e lo si piange sui social di ogni risma, mentre quando scompare uno dei più rivoluzionari artisti del mondo a compiangerlo rimangono pochi esperti e qualche nostalgico.
Ma forse è meglio così: l’opera di Godard sfugge alle trame del mainstream. Forse lo sguardo finale in macchina nel piano sequenza conclusivo di Fino all’ultimo respiro, con Jean Seberg che dice “Qu’est ce que c’est dégueulasse” mentre passa il dito sulle labbra sensualmente semichiuse, non è per tutti.

Probabilmente i film di Godard oggi sono troppo distanti dai gusti della generazione Z, ma sta di fatto che la scena della corsa fra i corridoi del Louvre in Band à Part resterà, per molte generazioni, uno dei momenti più belli della storia del cinema.
E forse chissà, un giorno, dopo aver (ri)compreso il valore di questa carriera, torneremo tutti a guardare Fino all’ultimo respiro.