Il ritratto di questa settimana è dedicato a Thomas Mann (1875 – 1955).
Il premio Nobel per la letteratura nel 1929 era di famiglia tedesca e molto agiata. Fino a sedici anni vive senza pensieri meglio di Simba nella Savana. Il padre era un ricco commerciante e senatore mentre sua madre, una creola di origini portoghesi-brasiliane, aveva inclinazioni musicali. Oltre a loro in famiglia c’erano due fratelli, entrambi scrittori e due sorelle, entrambe suicide.
Thomas dimostra subito un’indole creativa e una fervida immaginazione. Legge molto, scrive poesie e racconti dedicate ora a un amico, ora al suo primo (e misterioso) amore di cui non ci sono tracce. Odia la scuola (ma va?) preferendole uno studio da autodidatta a casa (si vede che non conosceva il lock down). Tuttavia il padre lo designa quale erede negli affari quindi non ha scelta e prosegue gli studi commerciali. Del resto gli altri fratelli avevano messo in chiaro che si sarebbero dedicati al giornalismo e alla scrittura facendo, della famiglia Mann, un raro caso di mele cadute molto lontano dal proverbiale albero.
Nel 1891 la morte del capofamiglia stravolge l’idillio; i Mann sono costretti a vendere tutto e a trasferirsi a Monaco mentre Thomas termina gli studi a Lubecca prima di raggiungerli. Poco dopo trova lavora in una compagnia di assicurazioni e da qui inizia la sua doppia vita. Di giorno con numeri e scartoffie, alla sera con la scrittura. Nel 1894 pubblica Gefallen, in cui l’idealismo del giovane e inesperto Laube si scontra con la cinica realtà. Il romanzo ha successo e gli apre le porte dei circoli culturali di Monaco. Il poeta Richard Dehmel definì la sua, una prosa soul e lo incoraggiò a scrivere ancora.
Detto fatto. Un anno dopo Thomas molla il lavoro e inizia la sua carriera di scrittore a tempo pieno. Si iscrive all’università e diventa giornalista. Pubblica Il Piccolo Signor Friedmann, la storia di un ragazzo deforme che si innamora della donna sbagliata. Una sorta di Gobbo di Notre-Dame ma senza il prete cattivo. Verso la fine, lo sfortunato protagonista intuisce che la sua vita si è sempre basata sulla menzogna e l’illusione e che la vera felicità risiede nella verità. Forte di questo, si dichiara alla sua bella che lo rifiuta, conducendolo a un tragico finale.
Il racconto registra critiche positive e il nostro va a vivere con il fratello più grande a Roma. Nell’Urbe invece di girare per chiese e musei, si chiude in casa a leggere. E i soldi? Ci pensa la borsetta di mammà. Per entrambi.
In compenso Thomas continua a scrivere e nel 1901 pubblica il suo primo vero romanzo: I Buddenbrook, ovvero il declino di una facoltosa famiglia di Lubecca raccontata nel giro di tre generazioni. Insomma un’appassionante saga familiare (giusto un pelo autobiografica) ambientata tra il 1835 e il 1885. Stavolta il successo è immenso, si tratta dell’opera più rappresentativa della crisi esistenziale dell’uomo borghese di inizio secolo che non riesce a conciliare arte e profitto. Vi è più di un accenno al decadentismo dell’uomo, sfiduciato ma orgoglioso, che prova a rimettersi in piedi non tanto per vincere una battaglia, quanto perché la reazione stessa è doverosa per il decoro dell’uomo. Eppure Mann assume un atteggiamento combattivo malvolentieri, è un continuo contrasto interno da cui non se ne esce vittoriosi. Ci si limita, semmai, a porre delle domande nella speranza di scuotere il sistema, magari qualcosa di buono ne uscirà.
Tornato a Monaco, si sposa con Katia Pringsheim, conosciuta in tram, che vanta un pedigree di tutto rispetto: figlia del grande matematico Alfred Pringsheim e nipote dell’attivista per i diritti delle donne, Hedwig Dohm. Katia, però, è di costituzione delicata e il medico che la visita suggerisce alla coppia di non avere figli. Ne avranno sei.
Al successo con i Buddenbrook seguono alcune novelle, tra cui Tristan e Tonio Kröger in cui affronta il tema dell’eroe incompreso ed emarginato dalla società, che (come abbiamo visto) gli è tanto caro.
La consacrazione gli arriva con Morte a Venezia (1912). Un romanzo breve e intenso che lo stesso Luchino Visconti ha portato sul grande schermo. Il protagonista è un famoso scrittore di mezza età che a Venezia si invaghisce di un ragazzino di rara bellezza: diventerà la sua ossessione. Che fare? A trarlo d’impaccio arriva il colera e, con essa, la morte. Morte come metafora tesa a rappresentare anche la decadenza dello spirito, oltre che del corpo.
Vi lascio immaginare lo scalpore attorno quest’opera non solo a causa della passione omossessuale dei protagonisti (per di più tra un uomo maturo e un adolescente), ma anche perché metteva a nudo la frustrazione di Mann nei confronti della sua bisessualità.
La signora Mann era al corrente di questo lato del marito, ciò non ha impedito alla coppia di condurre una vita tranquilla. Thomas trascorse con lei diverse settimane al sanatorio di Davos dove era stata ricoverata. Ed è in questo periodo che inizia la stesura del suo capolavoro: La Montagna Incantata.
Intanto siamo alle soglie della prima guerra mondiale e il nostro patteggia per gli ideali nazionalistici cui dedica anche un saggio: Pensieri di guerra. Questo lo porta a litigare con il fratello, di orientamento socialista. Solo anni più tardi, con la maturità, Mann rivede le sue posizioni e addirittura entra in contrasto con il regime nazista.
La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male
La montagna incantata vede la luce nel 1924. Non c’è un vero e proprio intreccio, racconta piuttosto una serie di pensieri sulla vita, la morte, l’amore, l’attesa (tanta), il tempo (tanto), del giovane Hans Castorp momentaneamente residente al sanatorio di Davos dove fa compagnia al cugino Joachim. Il momentaneamente si trasforma in sette anni durante i quali Hans cresce spiritualmente e umanamente alternando dialoghi e riflessioni personali verso idee più liberali per poter uscire dalla decadenza in vista di un nuovo umanesimo.
Se nei precedenti romanzi prevaleva una visione modernizzata degli ideali di Goethe, Nietzsche e Schopenhauer, con la montagna incantata emerge il nuovo interesse di Mann verso la psicoanalisi, lo spiritismo e nuove idee politiche unite a dibattiti filosofici. Questo probabilmente giustifica i sette anni di cui sopra.
Il romanzo è un successo, arrivano critiche positive pure da Freud con cui intratteneva una corrispondenza. Ma Thomas non perde tempo e inizia una tetralogia biblica: Giuseppe e i suoi fratelli, che richiese ben 15 anni.
Intanto arriva il Premio Nobel per la letteratura, (1929) ma non può goderselo troppo a lungo; è costretto a lasciare la Germania e a rifugiarsi prima in Svizzera poi negli Stati Uniti. La sua attività anti nazista gli costa: la perdita della cittadinanza tedesca, i beni di famiglia e pure la laurea che gli viene ritirata.
Poco male, gliene verranno conferite sette, Honoris Causa, assieme alla cittadinanza americana.
Il suo nome, ormai, è sulla bocca di tutti.
Lui continua a scrivere, escono Carlotta a Weimar, Doctor Faustus, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (pubblicato incompleto).
I temi affrontati sono la decadenza della società e la sua mancanza di spiritualità, vero nemico dell’uomo.
Thomas Mann muore a Zurigo a causa di complicazioni; soffriva da tempo di arteriosclerosi, ma ci ha lasciato una lunga serie di diari pubblicati postumi e contenenti episodi, pensieri, sentimenti, paure (era ipocondriaco) e depressioni causate dal suo essere bisessuale represso. Molto di ciò che ha scritto, lo ritroviamo nei suoi romanzi, compresi gli amori non corrisposti.
Uno come me, è chiaro, non dovrebbe mettere al mondo dei figli (Diario del 20 settembre 1918).
Incantato da Eissi, (Klaus) terribilmente grazioso mentre fa il bagno. Trovo molto naturale che io mi innamori di mio figlio… Eissi steso sul letto a leggere, nudo e abbronzato nella parte superiore del corpo, cosa che mi ha turbato… Pare che per me sia proprio finita con le donne (25 luglio 1920).