Visti i tempi, il ritratto di oggi lo dedico a Sibilla Aleramo (1876 – 1960)
Non saranno in molti a conoscere questa scrittrice, poetessa e saggista di origini piemontese, ma il suo romanzo Una Donna ha avuto ben quarantasei ristampe ed è stato tradotto in tutto il mondo.
Cos’avrà mai scritto? Ebbene ha dato voce alla condizione della donna a cavallo tra il XIX e il XX secolo. E per farlo, ha pagato un caro prezzo. Andiamo con ordine.
Il suo vero nome era Marta Felicina Faccio, per tutti Rina. I primi anni dell’infanzia li passa a Milano, città da lei molto amata. Suo padre, Ambrogio, era un uomo fiero e colto; laureato in scienze (tanta roba ai tempi) faceva l’insegnante. Sua madre, invece, era di origini più umili. Rina era la maggiore di quattro figli nonché la prediletta del padre. Lei stessa aveva nei suoi confronti un’ammirazione sconfinata. Grazie a lui impara l’amore per la conoscenza, per i libri per i viaggi. E poco importo che Ambrogio sia un zinzino ateo.
“Nessuno gli somigliava: egli sapeva tutto e aveva sempre ragione. Accanto a lui, la mia mano nella sua per ore e ore, noi due soli camminando per la città o fuori le mura, mi sentivo al di sopra di tutto.”
Con la madre, invece, la musica è diversa. Doveva essere una donna dolce, amante della poesia e incapace di opporsi al marito a tal punto da tremare davanti a un qualsiasi suo cipiglio. Rina la vedeva come una donna cupa, apatica e debole. Un primo scossone arriva quando suo padre decide di mollare l’insegnamento e accettare l’incarico di direttore di un’azienda a Civitanova Marche. C’era solo un piccolo problema del tutto trascurabile (per i tempi): Rina deve interrompere gli studi perché scuole, in paese, non ce ne sono. Così, a 10 anni si ritrova ad occuparsi della casa ma anche a leggere moltissimo. Suo padre le fa da mentore e le fornisce libri come se piovesse. Ma non bastano perché la ragazza soffre del provincialismo in cui è piombata.
A parte lui, una decina d’avvocati, annidati in un circolo di civili, suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra i piccoli proprietari dissanguati dalle tasse. Se si aggiungono alcuni preti e mezza dozzina di carabinieri, ecco tutta la classe dirigente del luogo.
La fanciullezza di Rina termina una mattina di tre anni dopo: sua madre tenta il suicidio. La salvano, ma anni dopo sarà ricoverata in un manicomio dal quale non uscirà più.
In casa l’atmosfera è cupa e il padre sempre più assente. Corre voce che abbia un’amante e questo, per Rina, è un duro colpo. Nonostante ciò, inizia a lavorare nella sua stessa azienda e qui incontra un collega di nome Ulderico Pierangeli, che dapprincipio le offre amicizia poi la violenta. Rina ha quindici anni, è sgomenta, smarrita, si sente disonorata e, forse per questo, accetta di sposarlo. Il marito è gretto, mediocre e geloso, non le permette di affacciarsi alla finestra, né di ricevere visite maschili senza la sua presenza (compreso il medico). La usa per avere prestigio sul lavoro e difatti, in breve diventa il vice del suocero. Rina, invece, sprofonda in un inferno fisico e morale non troppo dissimile da quello di sua madre.
A salvarla arrivano due cose: il figlio Walter e la scrittura.
La nascita del bambino, tuttavia, non migliora le cose. Tanto per dare un esempio, nel suo capolavoro Una Donna, scrive di un flirt innocento con un uomo sposato. Non ci fu nulla tra i due, eppure le malelingue si misero subito all’opera con conseguente scandalo. Il marito la picchia e la chiude in casa e lei, sola e disperata, tenta il suicidio.
Si salva grazie a lui che, appresa la sua innocenza, sprofonda in un mare di ti amo e di scuse. Tutto come da copione. L’aver toccato il fondo, fa quantomeno rinascere in Rina una nuova consapevolezza della sua persona. Comincia a scrivere racconti e più scrive, più le sembra di rinascere a vita nuova.
“Il matrimonio aveva prodotto una specie di sosta nel mio sviluppo spirituale.”
In Italia e nel mondo, intanto, c’è grande fermento. Nascono organizzazioni sindacali, nuove idee, ci si prepara a nuovi assetti, fanno la loro comparsa i primi movimenti femministi. E a quest’ultimi, Rina guarda con interesse. La parola d’ordine è Vivere. Per se stessa, ma anche per le altre nella sua stessa condizione. Così spedisce i suoi articoli a un periodico femminile.
Il giro di boa arriva nel 1899. Ulderico, diventato ancora più autoritario e prepotente, si dimette a causa di un alterco con il suocero. Contemporaneamente a Rina viene offerto un lavoro a Milano come direttrice della rivista Italia Femminile. L’occasione è ghiotta. Il marito acconsente solo perché lei può lavorare anche (anzi solo) da casa.
Il lavoro e i compensi, le restituiscono un po’ di indipendenza e fiducia ma il marito è sempre più paranoico e invidioso del suo successo. Dopo un anno di mondanità, decide di riprendere il precedente impiego, ma in qualità di direttore sostituendo il suocero. Rina non ha scelta.
Ricomincia un duro periodo di botte e insulti al termine del quale è proprio Ulderico a proporle una tregua e lei, desiderosa di spiccare il volo, accetta con l’accordo di tornare a riprendersi l’adorato figlio. Cosa che non accadrà mai. In caso non fosse chiaro, Ulderico era anche molto vendicativo e la legge, per una donna che abbandonava il tetto coniugale, era dalla sua parte. La sofferenza del distacco dal figlio la troviamo in molte sue poesie.
Rina va prima a Roma, poi a Milano. Lavora intensamente; conosce il gotha della letteratura, collabora con diverse riviste e antologie. La sua è una voce autorevole e di ampie vedute.
Si lega a Giovanni Cena, direttore della Nuova Antologia e si dedica anima e corpo alla beneficienza. Fu lui a editarle il primo lavoro (fortemente autobiografico): Una Donna e a suggerirle lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. Il romanzo fa il giro del mondo e infiamma il dibattito sulla questione femminile. Rina si libera pubblicamente del sacro ruolo di moglie e madre come nessuna aveva mai osato fare prima e, udite udite, rivendita la parità dei sessi. Il successo è enorme.
Inizia la sua ascesa. La fama le arride, non così la vita sentimentale. Fanno scalpore le sue relazioni per quantità e qualità: Vincenzo Cardarelli, Salvatore Quasimodo, Giovanni Papini, Lina Poletti e pure Eleonora Duse (per citarne alcuni).
La più chiacchierata fu la burrascosa love story con il poeta Dino Campana, finita con l’internamento di lui. La stessa Sibilla racconta quei giorni folli e febbrili ne Il passaggio (1919) che, a dispetto delle sue aspettative, viene giudicata indecente.
Alcuni intellettuali definirono la Aleramo “il lavatoio sessuale della cultura italiana”.
Lei, che in mezzo agli insulti ci aveva vissuto, questi nemmeno li considera. Pubblica la sua prima raccolta di poesie: Momenti. A Napoli scrive per il teatro Endimione, ispirato alla sua storia con l’atleta Tullio Bozza e finita con la morte per tubercolosi del ragazzo. A Parigi è un successo, a Torino la fischiano. Persino la Duse rifiuta di interpretare la pièce.
Scrive molto, Sibilla Aleramo, ma conduce una vita dispendiosa che la porta sull’orlo della povertà. In più arriva il fascismo e avere per amante un deputato socialista (tale Tito Zaniboni) che progettava l’assassinio del Duce, non è cosa buona e giusta. Così viene arrestata e rilasciata perché si dichiara simpatizzante del partito fascista a cui, poi, si iscrive in cambio di lavoro e sussidio. La carriera giornalistica è finita. Ciò non le impedisce di scrivere. Escono Andando e stando e ancora: Amo dunque sono e nel 1930: Gioie d’occasione e il Frustino (1932) dove racconta dei tre amanti con cui si divise nell’estate del 1914. Si potrebbe dire uno per ogni mese, e sono: Michele Cascella, Clemente Rebora e Giovanni Boine.
Continua a lavorare, Sibilla, e a cambiare amanti i quali, diventano sempre più giovani. I suoi lavori continuano ad essere una mescolanza di lettere, stralci di poesie e aneddoti tratti dal suo vivere quotidiano. Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al PCI, impegnandosi intensamente in campo politico e sociale e collaborando con l’Unità.
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Aveva 83 anni. In tutta la vita, rivide suo figlio solo tre volte.