Un film che celebra il potere salvifico del cinema e omaggia il potere della fantasia attraverso due inaspettate Penelope Cruz e Luana Giuliani
C’è sempre un po’ di diffidenza da parte della critica e del giornalismo di settore verso quei film italiani che dimostrano di uscire dal selciato del realistico per scadere nella dimensione dell’immaginifico. È stato così per Il signore delle formiche (Gianni Amelio, 2022), grande ignorato al Festival di Venezia, ed è così per L’Immensità, film di Emanuele Crialese che ne firma anche la sceneggiatura insieme a Francesca Manieri e Vittorio Moroni. Anche L’Immensità gareggiava per il Leone D’Oro, anche questo film non è stato compreso dalla maggior parte della critica italiana.
In effetti, che incidenza può avere un film che apparentemente tratta di una storia famigliare, domestica, quella di una madre (Penelope Cruz) e dei suoi figli, fra i quali spicca Adriana (Luana Giuliani)? Una creatura che stenta a definirsi, che si innamora di una ragazza, che “non si sente Adriana”, ma non è nemmeno Andrea (come le ricorderà la madre). Il tutto calato nei pieni anni Sessanta, quelli delle canzonette in tv e della moda della villeggiatura al mare, della buona borghesia e delle scuole delle suore.
Crialese condensa in L’Immensità l’autobiografia e la fiction, il ricordo e il romanzo, offrendo un film che parla di identità di genere ma affrontadola da una prospettiva originale e completamente innovativa.
Una dichiarazione d’intenti si palesa fin dalle prime inquadrature, con quel primissimo piano sugli occhioni scuri e profondi di Penelope Cruz che si accende la sigaretta e guarda verso la figlia Adriana appena entrata in stanza. E per un attimo sembra di rivederla in Volver – Tornare (Pedro Almodovar, 2006), un altro film che basava la propria struttura narrativa sul rapporto fra una madre e una figlia. Che Pedro Almodovar sia il modello indiscusso a cui Crialese si rivolge è chiaro fin dalla scelta di Penelope Cruz come protagonista (attrice portata alla ribalta, insieme al collega Antonio Banderas, dal regista spagnolo).
Anche l’ambiguità sessuale, il controverso rapporto con la religione (si pensi al momento in cui Adriana si abbuffa di ostie e, poiché colta da asma, al medico che le chiede cosa le sia capitato risponde “Ho mangiato tanti corpi di Cristo”), gli stacchetti musicali che pescano a piene mani dalla cultura camp, in particolare dall’universo drag che basa una parte delle proprie performance sugli scambi di genere e sulle canzoni eseguite in playback, sono tutti elementi cari alla filmografia del regista spagnolo.
La più affettuosa dichiarazione d’affetto per lo stile camp del quale Almodovar è il maestro indiscusso si esplicita però nelle scene iniziali, quando Clara e i suoi tre figli apparecchiano la tavola sulle note di Rumore di Raffaella Carrà, omaggiata anche da Almodovar in Madres Paralelas (2021), nonché icona incontestabile del mondo omosessuale.
Non che sia solo questo il film di Crialese, anzi il regista, facendo propria una sintassi che giustifica la sua operazione, è capace di spingersi oltre pur costruendo il film su un linguaggio semplice. L’immensità è attraversato da un vocabolario filmico che evita la retorica, si prende la responsabilità di narrare gli universi intimi dei personaggi, in particolare di Clara e Adriana, senza risparmiare primi e primissimi piani.
Ma in quello che apparentemente si potrebbe configurare agli occhi degli spettatori come un dramma intimistico, si trasforma poi in un inno appassionato alla fantasia, all’immaginazione, al gioco e alla creatività. Il cinema diventa il microscopio attraverso cui Crialese indaga quella zona grigia in cui si trovano Adriana, a livello sessuale, e Clara, in senso matrimoniale, entrambe disilluse e infelici delle situazioni in cui si trovano. Il ricordo più bello del film si situa così nel rapporto di complicità che lega madre e figlia, in grado di parlare un lessico comune fatto di patti, danze sotto l’acqua spruzzata da una canna da giardino, di scherzi sotto il tavolino alla cena di Natale. Piccoli momenti strappati alla “tirannia della realtà” e nei quali si situa quell’immensità citata nel titolo, atomi di tempo necessari per sopravvivere alle costrizioni dei doveri e delle responsabilità degli adulti. Quando la nonna di Adriana lamenta il fatto che la ragazza abbia ancora troppo la testa fra le nuvole, Clara ribatte di non aver paura delle fantasie dei bambini ma di temere “le fantasie degli adulti che si credono ancora bambini”.
Forse proprio in questo sta la potenza salvifica del cinema, sembra dirci il regista, ovvero nella sua capacità di isolare quell’atomo di tempo in cui lo spettatore si sente bambino ma senza patire la colpa di fantasticare come adulto che ancora si crede bambino. Perché la fantasia, l’immaginazione, non circoscrivono, non etichettano, non definiscono. Quando Adriana supera il canneto (luogo proibito che la madre ritiene pericoloso) è come se attraversasse un portale magico che le permettesse di entrare in un altro spazio, un luogo immaginario dove godere la libertà di non sentirsi né Adriana né Andrea, di dimorare la zona grigia attraverso un processo di transizione che solo il cinema è in grado di realizzare. Ma come tutti i luoghi immaginari, dopo il temporale della realtà, non può che sparire senza lasciare traccia.
Penelope Cruz impressiona grazie ad una interpretazione ricca che contribuisce all’affresco struggente e poetico macchinato dal regista. Il suo italiano sporcato dallo spagnolo la rende viva e vera ma al contempo tanto ideale, lontana, quasi inafferrabile. Luana Giuliani conferisce profondità alla figura di una adolescente che si sente incompleta, difettosa di qualcosa, affetta dalla mancanza di un quid che possa definirla.
In un mondo insidiato dalla “dittatura del nulla”, come l’ha chiamata Gianni Canova, che avvelena le nostre capacità immaginifiche atrofizzando i nostri sogni e le nostre fantasie, L’Immensità si dimostra il ringraziamento più appassionato al cinema e alla sua capacità di creare luoghi, tempi e modalità con cui organizzare una resistenza all’inverno del reale.