Il primo lungometraggio della regista Olivia Wilde ci immerge in una storia claustrofobica per scoperchiare i lati negativi della post – medialità
[Recensione spoiler]
La prima cosa che colpisce guardando Don’t worry Darling, in concorso alla 79esima edizione del festival del cinema di Venezia, è l’abbondanza di forme levigate, lisce, lucide, splendenti, regolari e spesso di forma circolare: i bordi delle tazze da caffè, i tuorli d’uovo perfettamente tondeggianti, le coreografie delle ballerine, la stessa città, luogo dell’azione, ha una forma rotonda e pure la macchina da presa compie spesso movimenti circolari per insinuarsi nei discorsi dei personaggi. Questo perché il cerchio è una figura perfetta, conchiusa, una forma autorisolutiva.
Tutto luccica, tutto brilla ed è colorato nel mondo del progetto Victory (letteralmente “vittoria”), il luogo di chi ce l’ha fatta, di chi ha avuto successo, di chi è arrivato ed ha realizzato i suoi sogni. L’atmosfera è quella dell’America degli anni Cinquanta, quella dell’american way of life, un clima che travolge gli uomini, rigorosamente in giacca e cravatta pronti per portare a casa lo stipendio, e le donne, casalinghe disinteressate che passano il proprio tempo fra cocktail party, lezioni di danza e giardinaggio. Alice (Florence Pugh) è una di quelle donne: ama il suo uomo, Jack (Harry Styles), adora il suo tenore di vita ed è convinta della propria missione di moglie e casalinga. Ma un giorno, quell’apparente clima di perfezione che riempie la sua esistenza finisce per sgretolarsi dando il via ad una storia dai risvolti macabri che si concluderà con la scoperta della vera natura del progetto Victory.
Il film di Olivia Wilde, al timone del suo primo lungometraggio, è saturo anche di superfici riflettenti che si ricollegano a quell’abbondanza di forme lisce e levigate di cui abbiamo detto all’inizio: specchi, acqua, vetrine, c’è un perpetuo specchiarsi dei personaggi come se questi fossero messi di fronte continuamente ad una realtà mediata, una realtà che non esiste ma si tiene in piedi solo grazie ad un gioco di specchi. È una vera e propria estetica della levigatezza quella di Don’t worry Darling, così come l’ha delineata il filosofo Byung – Chul Han: “La levigatezza procura soltanto una sensazione piacevole non collegata ad alcun senso”; l’arte della levigatezza abolisce il giudizio estetico e questo non permette una mimesi della realtà ovvero non crea una distanza contemplativa. Il risultato è l’incapacità di decifrare quello che si ha attorno.
Questo è proprio quello che vive il personaggio di Florence Pugh, che riesce ad uscire dalla sua bolla di apparenza solo divenendo spettatrice di un incidente aereo. Quando Alice vede precipitare un aeroplano nel deserto, che non si deve attraversare secondo le rigide imposizioni del guru di Victory, Franck (Chris Pine), questo la porta a raggiungere un luogo strano che, attraverso un punctum, un turbamento, la porta di nuovo a “vedere”. Quell’aereo ha la stessa funzione del convoglio de Il treno ha fischiato (1914) di Luigi Pirandello o dello sparo di pistola nell’ultimo atto de Il Gabbiano (1895) di Anton Céchov: è l’elemento della realtà, è la vita presa nel suo vivere che scaturisce prepotentemente nel regime dell’apparenza, nello spazio della levigatezza conciliante e appagante.
È lo stesso Franck che spiega le ragioni che soggiacciono al progetto Victory: evitare il caos, creare un mondo dove tutto ciò che avremmo voluto essere si è realizzato, dove tutto le cose sono al loro posto. È un meta – verso quello di Victory, uno spazio solo apparentemente accogliente ma in realtà impositivo, minaccioso e letale; il tema posto in primo piano dalla regista è proprio questo: i paradisi artificiali uccidono.
A farne le spese sarà proprio la sventurata Alice, che troppo tardi capirà la vera natura del progetto: Victory è una macchina che l’ha distolta dalla sua vita, che la tiene in una condizione vegetativa nella realtà e le fa vivere una vita da sogno in un universo fittizio, la costringe a mutarsi in un “dispositivo domestico” al servizio del suo compagno che, per primo, l’ha scaraventata a sua insaputa nella città di Victory per fuggire dalla infelicità, dalla fatica, dalle responsabilità della vita reale. “Ma quella era la mia vita” griderà Alice in faccia a Jack dopo aver scoperto che cosa abbia combinato. In questo sembra consistere il messaggio più potente di Olivia Wilde: un’umanità che si fa traviare dall’estetica della levigatezza, che annulla le proprie percezioni rimettendole alla mercé della tecnologia, che diventa così un’estensione ma spesso una sostituzione dei nostri sensi, è un’umanità che non è più capace di differenziare il reale dal virtuale e che vive una perpetua condizione di post – medialità.
Il film si colloca dunque nel solco tracciato da pellicole o serie televisive contemporanee che stanno registrando questo senso di spossessamento dalla realtà causato dalla creazione di paradisi artificiali tecnologici come in Matrix (Lana e Lily Wachowsy, 1999 – 2021) o WandaVision (Matt Shakman, 2021): il cinema e l’audiovisivo in senso lato sentono l’esigenza di metterci in guardia contro una deriva sociologica che può tramutare definitivamente l’umano in post – umano. E lo fanno a partire dallo statuto stesso del cinema, esso stesso una forma di realtà mediata, un’apparenza creata da una macchina che funziona come estensione percettiva del nostro sguardo. Per questo siamo rapiti dalla narrazione di Olivia Wilde: anche lo spettatore crede a Victory, anche il pubblico pensa, come Alice, che la città e i suoi abitanti siano veri fino alla rivelazione finale, catturati dalla sinuosità del mondo impalcato dalla regista diventiamo compartecipi dell’illusione di Alice e solo alla fine comprendiamo la portata claustrofobica e asfissiante di Vicotry. Non a caso, l’ultimo suono che si sente poco prima della comparsa del titolo del film nel finale è il respiro affannato di Florence Pugh che sembra riemergere da una lunga apnea. Così lo spettatore, che ha vissuto due ore di un thriller psicologico intenso e martellante, non può che tirare il fiato alla fine del film.
In questo sta il grande paradosso del cinema: una macchina che ci avverte sulla minaccia delle realtà mediate create da altre macchine ma attraverso un racconto e un’estetica che ci disturbano, ci interrogano e ci portano a vedere il mondo con altri occhi.