L’interpretazione di Elodie convince nel mafia – western di Pippo Mezzapesa, complice la fotografia di Michele D’Attanasio
Un bianco e nero nettissimo, accentuatissimo, con una scala di grigi ridotta, in grado di scolpire i volti scavati e austeri di Michele Placido e Tommaso Ragno oppure le rughe frutto dell’arsura del sole e della fatica del lavoro delle comparse che paiono uscite da un film di Pier Paolo Pasolini. Si presenta così il lavoro del regista Pippo Mezzapesa in concorso nella sezione Orizzonti alla 79esima edizione del Festival del Cinema di Venezia: una storia di clan, di gang, di appartenenza. Le famiglie sono tre: i Malatesta, i Camporeale e i Montanari, protagoniste di un racconto che inizia nel 1960 e si conclude nel 2004. Una storia raccontata dalla prima pentita della mafia del Gargano e alla quale si ispira il personaggio di Marilena (Elodie). La donna, appartenente ai Camporeale, si invaghisce, ricambiata, da un giovane della famiglia rivale, i Malatesta, Andrea (Francesco Patanè). È l’inizio di una scia di sangue e pallottole, di vendette e ripicche che portano al ridimensionamento dei ruoli e ad un nuovo assestamento dei poteri, come se Brian de Palma avesse incontrato la tragedia di William Shakespeare.
A colpire sono innanzi tutto le location che descrivono una Puglia arcaica, solenne, e ancora incancrenita in rituali e credenze e i cui elementi ricorrenti sono lo sporco, il fango, il letame, spazi abitati da maiali, oche, pecore, vacche, tacchini che coabitano gli stessi spazi degli uomini. Essere umani e animali convivono in quella che è una parabola dove è assente l’umanità e la furia selvatica e la legge del sangue chiama sangue si prendono spesso la scena.
Quello di Pippo Mezzapesa è un mafia – western che si trasforma ben presto in un revenge movie spietato e che rotola piano piano verso la sterminazione delle famiglie rivali: violenza, sangue, facce deturpate (così come vogliono le regole d’onore dei clan mafiosi), rumori sordi e rimbombanti di colpi d’arma da fuoco.
Un film poderoso che si completa con l’interpretazione di Elodie, alla sua prima prova d’attrice, ieratica e convincente, una femme fatale che si riscatta contrapponendosi alla madre statuaria di Lidia Vitale che per intensità e ferocia ricorda le più belle interpretazioni di Anna Magnani.
Francesco Patanè compone invece un personaggio sfaccettato, un ragazzino “non ancora svezzato” che, dopo il suo primo omicidio, inizia una scalata al potere che lo sprofonda nel delirio e nella spietatezza e che terminerà col rivoltarsi contro di lui.
Ti mangio il Cuore è un film dove è assente l’innocenza e dove l’innocente si trasforma ben presto in carnefice, una situazione richiamata anche da alcuni stacchi di montaggio come quando Marilena e Andrea fanno l’amore e un cut mostra il parto di un agnello per poi tornare sui due amanti che hanno appena consumato il loro desiderio. Poco dopo si scoprirà che Marilena aspetta un bambino. Il bambino lo vedremo solo alla fine, candido e ingenuo come l’agnello che Mezzapesa ha inserito provocatoriamente in questa scena iniziale, forse per confermare l’idea che il buono possa nascere anche nelle situazioni più mostruose e inospitali (come l’agnello, che vediamo sporco, macilento, disorientato).
Impressionante rimane però il lavoro svolto dal direttore della fotografia Michele D’Attanasio, che ha vinto il David di Donatello per Veloce come il Vento (Matteo Rovere, 2016) e Freaks Out (Gabriele Mainetti, 2021) ma è stato candidato anche per Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015) e Capri Revolution (Mario Martone, 2018). Il suo nero è veramente nero, il suo bianco è davvero marmoreo e descrivono un mondo dove non ci sono sfumature, che non accetta mezze misure: o appartieni ad una famiglia oppure ad un’altra, o sei amico oppure nemico, o sei alleato o altrimenti rivale.
Questo contrasto assume particolare rilevanza in alcuni passaggi visivi, come nella sequenza iniziale della processione, con le donne che indossano gli abiti neri e il velo e si tramutano in un brulicante torrente scuro oppure nella scena alle saline, con la macchina da presa che riprende in campo lunghissimo Andrea e Marilena mentre si abbracciano per poi compiere una panoramica sul paesaggio ostile della Puglia di Gargano, con due montagne bianche sullo sfondo che sembrano diventare due colossi di ghiaccio.
Mezzapesa, grazie ad un ottimo lavoro di squadra, pare richiamare alla mente il Gomorra (2008) di Matteo Garrone o il mondo cinico dei primi film di Ciprì e Maresco (come Lo zio di Brooklyn, 1995 o Totò che visse due volte, 1998) eppure riesce a intraprendere un percorso autonomo, regalandoci un film che sa di sangue e piombo, tanto feroce come la madre interpretata da Lidia Vitale ma nondimeno così appassionato come l’amore di Marilena e Andrea.