La tragedia di essere diva: Andrew Dominik spagina il mito di Marilyn Monroe con la complicità di un’intensa Ana de Armas
È passato al festival del cinema di Venezia schivando i colpi inferti dalla critica, è stato definito “crudele e sessista” ed infine è approdato su Netflix il 29 settembre scorso. Blonde, il film di Andrew Dominik con protagonista Ana de Armas, ha fatto parlare di sé fin dal lancio del teaser per finire addirittura vietato ai minori di 18 anni.
Il film è basato sull’omonimo romanzo della scrittrice Joyce Carol Oats, edito in Italia da La Nave di Teseo, e per questo non è un semplice biopic ma un lungometraggio che mescola fiction e visionarietà, dove c’è ben poco di realistico o comprovato, un “delirio – horror della coscienza di Marilyn” (Maurizio Porro) che in certi momenti sembra adottare alcune soluzioni visive simili a Inland Empire (David Lynch, 2006) o Maps to the stars (David Cronenberg, 2014).
Su Marilyn è stato detto tutto e il contrario di tutto, che senso avrebbe avuto dunque realizzare l’ennesimo film che avesse una pretesa di verosimiglianza? Dominik va oltre e coglie l’occasione per condurre una riflessione su cosa abbia rappresentato il mito di Marilyn, con quali meccanismi sia stata consumata la sua immagine senza curarsi di cogliere l’invisibile della sua vita privata.
Ai fini di questa operazione, il regista adotta quella che Pavel Florenskij avrebbe definito una “prospettiva rovesciata”, mettendo da parte le cronache, le biografie ufficiali, le versioni accreditate della vita della diva per impalcare il racconto su un punto di vista diverso che si costruisce per simbologie ricorrenti e drastici passaggi visivi.
La scelta del registro è chiara fin dalle sequenze iniziali, in quello che è un vero e proprio prologo al film che racconta l’infanzia di Marilyn all’epoca Norma Jean. Si nota qui la presenza ingombrante di due elementi naturali, il fuoco (l’incendio verso cui sfreccia l’auto della madre) e l’acqua (nella quale la stessa cerca di affogarla): sono due elementi distruttori, due primi tentativi di annichilimento di una “bambina maledetta”, una creatura che non sarebbe mai dovuta nascere, ripudiata dalla madre e abbandonata dal padre. La deriva tragica del mondo intimo della futura Marilyn è già sublimato nei suoi primi anni di vita. Norma Jean passa poi attraverso lo stadio della perdita, una volta rinchiusa in orfanotrofio, ed è qui che il regista localizza la genesi della maschera di Marilyn attraverso un radicale stacco di macchina che dall’infanzia ci catapulta immediatamente negli anni della sua maturità. Viso grazioso, occhioni profondi da cerbiatta contornati dalla caratteristica eyeliner, i capelli di un biondo freddo e asettico, Norma Jean è già sepolta sotto Marilyn Monroe che tuttavia non riesce ad esorcizzare quel profondo senso di abbandono che la inducono a cercare ossessivamente una figura paterna sostitutiva (chiamerà tutti i suoi mariti “daddy”). Ci sono pochissime figure femminili in Blonde, la maggior parte del cast (amici, amanti, fan, registi, produttori…) sono uomini che lei spera possano darle ciò che sta cercando: lavoro (si pensi alla scena erotica con il produttore del suo primo film che le assegnerà poi la parte), affetto (i due mariti), complicità (Whitey, il truccatore).
Il suo tenace tentativo di colmare un vuoto viene però sempre frustrato, catapultandola in una situazione indefinita dove l’esistenza e la finzione si contaminano reciprocamente. Da qui la scelta stilistica di alternare, con un certo margine di casualità, il colore al bianco e nero: Norma Jean vive la sua vita? Oppure è Marilyn o uno dei personaggi da lei interpretati e che esistono fuori dallo schermo? La componente meta – linguistica attraversa la storia come un filo rosso: “è come un film, queste cose succedono solo nei film” dirà ad un certo punto. E come in un film Marilyn si trasforma progressivamente in un dispositivo panottico, all’interno di una situazione in cui perpetuamente guarda, si guarda e soprattutto è guardata. Norma Jean è preda di uno sguardo maschile tanto sullo schermo quanto nella vita: le offrono le parti da “bionda bomba sexy” (come la definirà una rivista), plasmandola, esponendola, facendone un’immagine di seduzione e desiderio. Un ruolo in cui lei non si riconosce: “Quella cosa sullo schermo non sono io” dirà disgustata dopo essersi rivista in Gli uomini preferiscono le bionde (Howard Hawks, 1952). Ma ormai il processo è avviato e lo stadio successivo non può che estremizzarsi con la sua metamorfosi in icona, proprio quando girerà Quando la moglie è in vacanza (Billy Wilder, 1955) e soprattutto la scena in cui la sua gonna svolazza nella famosa sequenza della metropolitana. Marilyn diventa una figura riproducibile all’infinito, pasto per l’onanismo scopico, un’immagine consumabile la cui velleità viene suggerita dal montaggio reiterato che riprende più volte la sua gonna che si alza al vento gelandola nella posa con la quale si è imposta nell’immaginario collettivo. Ormai è definitivamente trasformata nell’Orange Marilyn (1964) di Andy Warhol.
Ma Marilyn non è solo guardata e non solo si guarda ma, come anticipato, il personaggio ci guarda: quando litiga con il secondo marito, il drammaturgo Arthur Miller (Adrien Brody), afferma “a te cosa importa della mia vita” e a questo punto fa una cosa che non aveva mai fatto durante tutto il film: guarda in macchina, guarda lo spettatore. In questo momento si riassume tutta la premessa teorica del film: anche noi non siamo diversi dai mille uomini della vita di Marilyn, anche noi abbiamo sete della sua immagine. È vero, dopotutto a noi cosa importa della vita di Marilyn? Per il pubblico ella rimane solo la bionda un po’ sciocca che canta I wanna be loved by you, non interessa altro.
Ma il cinema “ti scompone in mille pezzi”, come dice Marilyn stessa, ed è proprio quello che fa Andrew Dominik. Lungi dal voler comporre un ritratto completo e soddisfacente della diva americana, egli preferisce spaginarla, decostruirla, attaccarla anche un po’ crudelmente quasi dando sfogo ad una missione iconoclasta per disintegrare l’immagine condivisa, patinata e intoccabile dell’icona Marilyn Monroe, cogliendola nei suoi momenti di massima bassezza (pensiamo alla finale performance di sesso orale con John F. Kennedy) ma senza deprivarla di un’aura mitologica. E il film non può che concludersi con un lungo piano sequenza sui suoi piedi inermi che sbucano da letto, quando la diva morì in quel fatidico 1962. Quei piedi (la parte più bassa e umile del nostro corpo) ricordano tanto quelli della Morte della Vergine di Caravaggio. Così scandalosi eppure così immacolati e puliti, quasi non avessero mai toccato terra, un segno di distanziamento dalla realtà sensibile.
Forse perché Marilyn non è mai esistita e forse non è mai esistita nemmeno Norma Jean. Esse vivono solamente se impresse nella celluloide delle pellicole dei loro film.