L’America di Reagan, l’amore, il cannibalismo, un terrore che resta sempre sottopelle: il romanzo di Camille DeAngelis diventa un film pulsante nelle mani di Luca Guadagnino
È inutile, Luca Guadagnino non ci piace. Noi italiani abbiamo più volte bistrattato uno dei registi che, attualmente, figura fra gli artisti più completi e capaci, che sfoggia una consapevolezza del mezzo cinematografico che è rara e poco frequente. La critica ne diffida, i giornalisti di settore lo demoliscono, il pubblico lo metabolizza come una pastiglia amara solo se confeziona storie concilianti e possibilmente da leggersi alla luce del politically correct – come accaduto con Chiamami col tuo nome (2017) –. In realtà non c’è alcuna intenzionalità conciliante nel cinema di Guadagnino, né tantomeno una pedissequa adesione ai modelli del political corectness. Non c’è artista più libero, a livello espressivo, del nostro Guadagnino e non solo a livello nazionale ma anche internazionale: egli è uno dei pochi italiani che vantano collaborazioni all’estero con grandi case di produzione straniere (da ultima la Universal Picture). Solo Paolo Sorrentino aveva raggiunto questo grado di visibilità al di fuori dei confini patrii ed anche Sorrentino è un regista che o si ama o si odia.
L’estero, e in particolare gli States, già da tempo ha compreso la carica sperimentale e avanguardista del cinema di Guadagnino: ha salutato calorosamente la sua serie We are who we are (2020), in Italia passata sotto totale silenzio, ha compreso l’operazione sofisticata di Suspiria (2018), ne ha riconosciuto l’incidenza artistica proponendogli progetti e lavori futuri – come il film su Il signore delle mosche o il remake di La Mummia (1932) -.
Noi invece continuiamo a non capirlo, lo vediamo come un regista poco famigliare, il realizzatore di lungometraggi troppo lunghi ed ermetici. Io ritengo che in questo stia tutta la “perfetta imperfezione” del suo cinema, un cinema non da grand public, che interroga i suoi modelli spesso di difficile decifrazione. Un tipo di cinema a cui ci si deve abbandonare, che non ha pretese esaustive, che non dice tutto, che lascia zone d’ombra sulle scelte di campo formali e narrative.
È bene tenere presente queste premesse quando ci si accinge ad analizzare Bones and All, ultimo film del regista vincitore di due premi allo scorso festival del cinema di Venezia. Tratto dall’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, è la storia di Maren (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet, attore feticcio di Guadagnino), due adolescenti che vivono l’America degli anni Ottanta e sono accumunati da due cose: si amano e hanno una predisposizione ossessiva a consumare carne umana.
Se nella prima parte della sua produzione (Mundo Civilizado, 2003 o Io sono l’amore, 2009) questa si reggeva su istanze bertolucciane – mentore indiscutibile a cui ha dedicato un documentario nel 2013 – e se successivamente la sua filmografia si è aperta al fascino del Nuovo Cinema Tedesco degli anni Settanta come in Suspiria, adesso Guadagnino si è dedicato ad un autentico road movie che risente fortemente dei modelli della New Hollywood.
Guardando Bones and All viene subito alla mente La rabbia giovane (Terence Malick, 1973), ma l’idea dei due protagonisti che attraversano l’America travolti da una passione amorosa e spesso colti in atti violenti ricorda Gangster Story (Arthur Penn, 1967), caposaldo fondamentale della New Hollywood. Rimane l’impronta di Bernardo Bertolucci, stavolta più ridotta e contenuta nelle pochissime scene soft core, mentre l’uso del sintetizzatore nelle tracce musicali che connotano le scene di tensione sembra rimandare al cinema di John Carpenter – i compositori della colonna sonora sono sempre i bravissimi Trent Reznor e Atticus Ross, già collaboratori del regista -.
Non c’è una sbavatura nell’impianto formale del film che predilige le panoramiche, i piani sequenza, gli zoom ottenuti per cut reiterati, tutto un vocabolario che rimane fedele alla sintassi del cinema degli anni Settanta.
Guadagnino dà prova di aver raggiunto una complessa maturità stilistica, già evidente in Chiamami col tuo nome e Suspiria, ora sistematizzata e traghettata in un progetto meno audace (se si pensa alla articolata stratificazione di Suspiria) ma non per questo meno abrasivo.
Nessuno, a mio avviso, ha mai ragionato in modo così perturbante sui disagi relazionali di un’intera generazione sublimati, nel nostro caso, nei due personaggi di Maren e Lee, veri e propri “divoratori” degli altri forse perché incapaci di farsi capire da chi li circonda. Ma, come ha detto giustamente Paolo Mereghetti, il film “sa evitare le tentazioni splatter regalando una tensione che resta sottopelle”: il regista non ci fa mai vedere morbosamente gli esiti dei pasti di Maren e Lee, si limita a suggerirli, li costruisce per assenze, come se avvenissero fuori scena, connotandoli di un’aura fortemente drammatica – anche nella tragedia greca i fatti di sangue avvenivano dietro le quinte – , come se la pratica del cannibalismo fosse qualcosa rispetto alla quale i due ragazzi sono impotenti, incapaci di frenare una pulsione più forte di loro.
È un mondo di mancanze quello di Bones and All, di debolezze, di solitudini e di abbandoni, uno spaccato che costruisce una vera e propria climax simbolista che si scioglie sono nel finale, drammatico come in ogni opera che si rispetti della New Hollywood.
Dopotutto, il film è solo un modo per cercare di farci penetrare nell’universo dei due protagonisti: a che servirebbero le immagini sulle quali la MDP indugia all’inizio del film se non a rendere noto il modo in cui essi guardano il mondo? Immagini di paesaggi snaturati, caratterizzati da colori espressionisti, con luci sfalsate e innaturali. È questo il mondo che vedono Maren e Lee, l’epilogo del film è infatti racchiuso fra due momenti posizionati in modo non casuale: quello di dialogo fra i due che viene spesso interrotto da panoramiche, e il finale vero e proprio con i due adolescenti abbracciati in campo lungo. In entrambi i casi, il minimo comune denominatore è di nuovo il paesaggio: stavolta un paesaggio naturale, quello degli spazi immensi che solo in America si possono trovare. È in quel momento che, contrastando quanto mostrato nelle immagini all’inizio, i due ragazzi si promettono di vivere come gente comune. È cambiando visione, è mutando di paradigma che i due cercano di guardare diversamente un mondo con il quale non sono mai riusciti a comunicare. Una pretesa sfatata dal finale luttuoso.
E al contempo, Guadagnino chiede anche al pubblico di cambiare paradigma, di aprirsi ai suoi film, di farsi toccare dalla temperatura emotiva delle immagini che costruisce, senza doverle per forza ridurre ad una estrema ratio.
È solo in questo modo che si potrà assaporare appieno la bellissima imperfezione di Bones and All.