Il ritratto di oggi lo dedico a Shirin ʿEbādi (1947). È ancora viva, nonostante tutto.
Il nonostante tutto lo spiego subito: lei è un avvocato che combatte per la tutela della donna, premio Nobel per la pace nel 2003 e attivista per i diritti civili. In Iran. Basta?
In una recente intervista, in cui commentava gli ultimi drammatici accadimenti del suo paese, ha dichiarato:
Il mio Iran è un fuoco che covava sotto le ceneri. E le donne lo hanno acceso.
È indubbio che la sua storia personale abbia coinciso con l’evoluzione del paese.
Shirin nasce il 21 Giugno del 1947 ad Hamadam, in una famiglia che non faceva differenze tra figli maschi e femmine e già questo era avanguardia pura. Il padre, Mohammad ʿAli ʿEbādi, era docente di diritto commerciale. Una famiglia tranquilla e benestante, per quanto possibile dato il periodo.
Alla fine della seconda guerra mondiale, infatti, e dopo aver sostenuto i tedeschi, gli iraniani si sono trovati in casa gli alleati: i russi al confine e gli americani ai pozzi di petrolio.
Questa vicinanza con gli occidentali fece sì che il paese avviasse una serie di riforme volte a modernizzarsi, prima sotto l’egida di re Reza Shah e poi di suo figlio Mohammad Reza Pahlavi. Shirin respira questo clima internazionale, tanto che crescendo capisce le molte differenze tra la sua e le altre famiglie. I maschi godevano già da allora di una posizione privilegiata in quanto depositari delle ambizioni familiari. Erano anche maggiormente amati e vezzeggiati. Eppure Shirin, grazie all’esempio della sua famiglia, si dota di una smisurata (e salvifica) autostima e, corroborata dalla fiducia che i suoi genitori ripongono in lei, cresce con l’idea di uguaglianza e parità di diritti tra uomo e donna.
Così nel 1969 si laurea in giurisprudenza all’Università di Teheran e dopo il dottorato in diritto privato, dal 1975 al 1979 ricopre la carica di presidente di una sezione del tribunale di Teheran.
È la prima donna giudice in Iran.
Nel frattempo, l’eccessiva sudditanza verso l’America aveva portato l’Ayatollah Khomeini al potere e con lui il partito integralista islamico avverso all’occidente. Lì per lì anche Shirin, come tutti, si sente pervasa da un sentimento di orgoglio nazionalista. E invece quello non è che l’inizio di un medioevo oscurantista e doloroso. Nel giro di una settimana le donne sono costrette a portare il velo, successivamente viene loro negato il diritto allo studio. E Shirin? Lei viene retrocessa a poco più che segretaria. Solo dopo aspre proteste le viene concesso la posizione di (udite udite) esperta di legge.
Lei manda giù il rospo ma non rimane in silenzio. Scrive articoli su articoli, ma rimane per lo più inascoltata. Alla morte di Khomeini (1989) sia lei che il mondo avranno tirato un sospiro di sollievo. Per un po’ Shirin torna a svolgere la sua professione, ottiene l’autorizzazione a operare come avvocato e si apre uno studio tutto suo. È il 1992. Due anni dopo, con un gruppo di coraggiosi, fonda la “Society for Protecting the Child’s Rights” un’associazione non-governativa della quale è tuttora dirigente.
Come “esperta di legge” da questo momento in poi la sua mission diventa quello di formulare proposte di legge che garantiscano il rispetto per i diritti umani in generale e delle donne in particolare, senza travisare le ferree regole dell’islam. Un po’ come quadrare il cerchio.
Una cosa le appare subito evidente: la base fondamentale che svolge l’istruzione nel processo di sviluppo di un paese.
“Il privilegio di una laurea”, racconta, “non eliminò la discriminazione sessuale, ma instillò nelle donne iraniane qualcosa che, nel tempo, penso, trasformerà il nostro Paese: una consapevolezza viscerale della loro condizione di oppresse”.
Con la sua fama, aumentano le minacce di ritorsioni e di morte, eppure diventa la paladina di coloro che hanno subito violenza o ingiustizie, tra cui i numerosi prigionieri politici del regime. Partecipa a manifestazioni, programmi, scrive articoli. Tra i molti che si sono rivolti a lei ci fu anche Parinoush Saniee, autrice del libro messo immediatamente all’indice: Quello che mi spetta, ovvero la fotografia della donna iraniana.
Intanto la nuova guida del paese, succeduto a Khomeini, è Ayatollah Khamenei. Come dire dalla padella alla brace. Ma la voce di Shirin, caparbia e tenace, non si arresta e le costa altre minacce, l’arresto e l’interdizione dalla professione.
Eppure la vera svolta arriva nel 2003 con il Nobel per la pace. È la prima donna iraniana e mussulmana a riceverlo. Dichiara subito che il premio le era stato assegnato come simbolo per la lotta contro le ingiustizie perpetrate nel suo paese. Figurarsi la gioia dell’Ayatollah.
Durante il volo di rientro da Oslo, il comandante la fa viaggiare in prima classe dichiarando che quello era il volo della pace, non solo, al suo atterraggio trova ad attenderla una folla sterminata e composta per lo più da donne.
“Alcune indossavano il chador nero ma la maggior parte portava veli di colori brillanti, e i gladioli e le rose bianche che sventolavano nell’aria, balenavano nell’oscurità della notte.”
E se Shirin era una spina nel fianco prima, figuriamoci ora. Seguono anni fecondi ma pericolosi: esce il suo primo romanzo: Il mio Iran (2006) che parte dall’amara scoperta di essere da tempo sulla lista dei condannati a morte del regime e ripercorre le tappe principali della propria vita professionale e privata, animata dalla profonda convinzione che l’Islam possa essere interpretato in modo positivo.
Nel 2008 esce La gabbia d’oro, che racconta di tre fratelli, suoi amici d’infanzia e di come la politica li abbia influenzati e divisi fino a prendere ognuno una strada diversa.
Di lì a poco Shirin fugge in Inghilterra, qualcuno la avvisa che sta per essere arrestata; e infatti nel 2009 la polizia piomba nel suo appartamento con l’assurda accusa di evasione fiscale, arresta e tortura la sorella e il marito di Shirin. Non solo, ma costringono l’uomo ad andare in TV e a rivolgere alla moglie accuse infamanti. Ovviamente i beni vengono subito confiscati. È difficile avere dati aggiornati su questa donna carismatica.
Attualmente vive ancora all’estero, in un posto segreto e sono i suoi stessi amici e colleghi a non volere che torni… ma solo per il momento.
“Mi hanno preso tutto, ma mi è rimasta la voce”
Nel 2016 ha pubblicato Finché non saremo liberi. Ovvero la storia di una donna iraniana che ha sfidato il regime ed è ancora viva per raccontarlo. La distanza dal suo paese non ne ha intaccato la forza e il coraggio. A 75 anni continua a ripetere:
“Saranno le donne a cambiare l’islam ed io tornerò a fare l’avvocata in Iran”.