Più pimpante rispetto al primo Diabolik (2021), il film dei Manetti Bros non è perfetto ma riesce comunque a catturare per rigore formale e attenzione filologica
Bisogna fare molta attenzione quando si recensisce Diabolik – Ginko all’attacco!, ultima fatica dei Manetti Bros. e secondo capitolo della trilogia di film dedicata al personaggio creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. Si deve fare attenzione, dicevo, perché non si ha a che fare con un film ma con un oggetto filmico articolato e stratificato, un’operazione sui generis che si spaccia da cinema d’intrattenimento ma che in realtà nasconde un preciso intento intellettualistico.
Sarà il rigore filologico, le inquadrature che insistono, senza tradirla, sulla natura fumettistica dello script e dei personaggi, le attente ricostruzioni di interni e costumi, la recitazione algida e straniata, sta di fatto che il Diabolik dei Manetti Bros., pur non arrivando all’apice raggiunto a suo tempo dal Danger: Diabolik (1968) di Mario Bava – così kitsch e così scorretto – riesce comunque se non a convincere almeno a catturare.
Il secondo capitolo ha una trama ridotta all’osso ed ispirata all’albo n. 16 della serie di fumetti che vedono protagonista il Re del Terrore. Diabolik (Giacomo Gianiotti), aiutato dall’inseparabile Eva Kant (Miriam Leone), ha messo gli occhi su un gruppo di monili, i gioielli Armen, ed è deciso a impadronirsene. Non ha però compreso che si tratta di una trappola dell’instancabile ispettore Ginko (Valerio Mastrandrea), deciso a catturare il criminale tanto da riuscire a scoprire il suo covo ed a privarlo di tutto: le refurtive, i gadget, l’auto e persino di Eva che scompare a seguito di un inseguimento. Inizia così un’escalation che porterà alla rivelazione finale, seguendo il ritmo di quello che si compone come un thriller poliziesco che si muove tra coltelli volanti, rapimenti, ricatti e mascheramenti.
Il primo Diabolik era stato costruito come un film d’atmosfera, a suo modo hitchckochiano, il secondo capitolo si mostra invece più pimpante, più sincopato, a suo modo dinamico, fin dai primi minuti. I Manetti ci fanno capire che il registro è cambiato ed è ispirato dai film di genere di fine anni Sessanta, come dimostra anche la grafica dei titoli di testa.
Se nel primo film la citazione ai bond movie era solo allusiva nel secondo si fa esplicita, tanto da aprirlo con un singolo di Diodato dalle sonorità simili a Skyfall (Adele, 2012) o Writings on the Wall (Sam Smith, 2015), accompagnato da un balletto postmoderno durante il quale si susseguono le sagome in sovraimpressione dei diversi personaggi. Un dettaglio non trascurabile quello del riferimento ai film dei primi James Bond, personaggio al quale Diabolik strizza un occhio – pensiamo ai gadget e ai marchingegni meccanici -, soprattutto se si fa attenzione al fatto che nel 1962, mentre in edicola compare Diabolik, al cinema viene distribuito 007 – Licenza di Uccidere (T. Young, 1062).
Da un punto di vista formale, i due fratelli registi ci tengono a confezionare un prodotto che sia tutto italiano, che possa inscriversi nel solco del cinema supereroistico e fumettistico tracciato da Il ragazzo invisibile (G. Salvatores, 2016) oppure 5 è il numero perfetto (Igort, 2019), tenendo una distanza rispetto ai modelli imperanti della Marvel. Si giustifica così la scelta della colonna sonora curata da Aldo e Pivio de Scalzi che si immergono nelle regioni del progressive rock e non possono per questo non guardare ai Goblin e alle sonorità firmate da Claudio Simonetti. Infatti attraversa tutto il film un insistente giro di basso che accompagna l’indagine dell’ispettore Ginko e che ricorda tanto il groove di Mad Puppet che accompagnava le camminate di David Hammings in Profondo Rosso (D. Argento, 1972).
Insieme alla musica, scene e costumi sono fra le cose migliori del film. L’iconografia giussaniana di Diabolik viene pedissequamente rispettata, dalle acconciature agli interni arredati con gusto retrò fino alla Jaguar e alle diavolerie meccaniche di Diabolik, il tutto valorizzato da un montaggio che fa largo impiego degli split screen e che si sposa con una MDP che impalca zoom improvvisi – come già nel film di Bava rammentato all’inizio – utili a rendere più organico tutto il corredo visivo.
I problemi sorgono, purtroppo, in due occasioni: lo script povero, eccessivamente didascalico e prevedibile, e la recitazione che non risente di un’impronta interpretativa precisa. La scelta è in parte giustificabile nell’idea di voler far uso di un timbro estraniato, algido, brechtiano, ma in molti casi l’impreparazione di attori e attrici si palesa senza scusanti. Giacomo Gianiotti, che sostituisce nella parte di Diabolik il precedente Luca Marinelli, lo impersona in modo più cattivo, meno catatonico rispetto a quello del collega Marinelli, e con un fisique du role adeguato e calzante – peccato che sparisca dallo schermo per circa 40 minuti di film -; Miriam Leone prosegue l’affresco di una Eva Kant che ha poco della femme fatale e tanto della subdola calcolatrice, se non fosse per la goffaggine nelle scene d’azione. Valerio Mastrandrea risulta l’attore maggiormente a suo agio nel personaggio di Ginko, qui messo di fronte anche all’amore per la duchessa Altea di Wallenberg interpretata da una inudibile Monica Bellucci, messa in difficoltà anche da un trucco sfigurante e inefficace.
Diabolik – Ginko all’attacco! va molto meglio rispetto al primo capitolo tanto da affascinare in molti punti, un fascino che sarebbe potuto essere meglio indirizzato con attori più capaci e uno script all’altezza che si spera possano arrivare nell’ultimo capitolo della trilogia.