Influencer incapaci, capitani marxisti, oligarchi russi: Ruben Ostlund ne ha per tutti nella sua ultima satira che sbeffeggia le differenze di classe fra deplacement e inversione dei ruoli
Prendete due modelli bellissimi ma un po’ limitati, metteteli su uno yacht di lusso insieme ad altri personaggi tanto simpatici quanto immorali e catapultateli, dopo un assalto pirata, su un’isola (apparentemente) ostile e disabitata e otterrete il film più geniale del 2022. Si tratta di Triangle of Sadness, terza prova alla regia dello svedese Ruben Ostlund premiata al Festival di Cannes di quest’anno con la prestigiosa Palma d’Oro, vinta per la seconda volta dopo il precedente The Square, 2017. In quest’ultimo il regista metteva alla berlina il mondo dell’arte, stavolta invece ad entrare nel mirino della satira tagliente di Ostlund è il mondo della moda e dei social, incarnati da Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), due modelli dal fisico scolpito che basano la loro relazione su sesso e follower. I due decidono di intraprendere un viaggio su uno yacht di lusso, ma le disavventure più surreali interromperanno la loro esperienza da vip.
Il film è diviso in tre parti: la prima parte, intitolata Carl e Yaya, oltre a presentare i due protagonisti compie anche una riflessione su usi e abusi del mondo della moda, sublimati nelle differenze di genere (Yaya ha uno stipendio più alto di Carl in quanto donna) e impalcati sul chiodo fisso del denaro, la cui accumulazione avviene capitalizzando i corpi dei modelli e delle modelle. La seconda parte, Lo Yacht, ci mostra i due protagonisti su un’imbarcazione di lusso guidata dal capitano Thomas (Woody Harrelson), un ufficiale americano con simpatie marxiste che non manca di demarcare le proprie contraddizioni. Thomas è solo uno dei tanti personaggi bislacchi che animano la vita di bordo: c’è Dimitrij (Zlatko Buric), oligarca russo magnate del fertilizzante, Bjorkman (Henrik Dorsin), sviluppatore informatico che vende codici per app, Winston e Clementine (Oliver Ford Davies e Amanda Walker), ingegneri conosciuti per il brevetto e la vendita di bombe a mano e mine antiuomo. È questa seconda parte una delle più notevoli, anche per il rigore della metafora, soprattutto se si pensa al momento del nubifragio durante il quale si svolge la cena del capitano che ha come effetto finale quale di una indigestione collettiva che sommerge i personaggi tra fiumi di vomito.
Ma i personaggi di Ostlund non sono mai trattati con supponenza e cinismo, e nonostante questa dimensione immorale connoti gran parte dei protagonisti essi non mancano mai di apparire simpatici e irresistibili. Ostlund ci fa propendere dalla loro parte, creando così un meccanismo di straniamento che si amplia durante i diversi momenti narrativi in cui l’ordine viene completamento sovvertito.
Ciò accade soprattutto nell’ultima parte, L’isola, dove i personaggi capitano su un’isola deserta e vengono sottoposti a due trattamenti narrativi differenti: quello di deplacement – tipico della commedia; è il momento in cui personaggi appartenenti ad una determinata condizione sociale e culturale vengono violentemente catapultati in un altro contesto, ostile e sconosciuto – e quello di inversione dei ruoli. Gli sfruttati diventano gli sfruttatori, i vinti diventano vincitori, i servi diventano i padroni, in una sorta di dimensione carnevalesca animata da Abigail (Dolly De Leon), sullo yacht un’inserviente filippina addetta ai bagni ma sull’isola l’unica in grado di procacciare viveri e sostentamento a tutta la compagnia.
Ostlund però non si ferma qui. Sarebbe stato troppo semplice raccontare una bella favola sulle differenze di classe terminandola con un’inversione dei ruoli magari con esito positivo. Nell’ultima parte Abigail abusa progressivamente del potere ottenuto in quella particolare circostanza fino ad arrivare a vette di estremo squallore: raziona le risorse in base alla simpatia, scambia cibo in cambio dei favori sessuali del giovane Carl ed infine, quando si scopre che l’isola in realtà ospita un resort di lusso, cerca di fermare Yaya in procinto di chiedere soccorso, sapendo che ciò avrebbe comportato un ritorno alla normalità. Una normalità dove ella è semplicemente un’inserviente addetta alle pulizie.
Triangle of Sadness compone una narrazione fatta di continui svelamenti e connotata da un registro tagliente, una satira affilata, un tono beffardo e un’ironia che si potrebbe definire pirandelliana. Si ride guardando il film di Ostlund, salvo poi riflettere sullo statuto della nostra risata non appena si compie quel processo di svelamento reiterato per tutta la durata del film che, in due ore e mezza, affresca l’immagine di un’umanità contraddittoria incapace di non gerarchizzarsi e di basare il proprio consesso sociale sui rapporti di potere, anche quando avrebbe la possibilità di fare uso di una libertà completamente arbitraria.
Vengono in mente i film di Luis Bunuel, ma anche i recenti Parasite (B. Joon – Ho, 2019) o The Lobster (Y. Lanthimos, 2015), salvo mostrare un’inventiva registica del tutto autoctona che accompagna l’originalità dello script al gusto delle inquadrature, dei fuori campo, dei carrelli e nell’uso diegetico della musica.
C’è chi ha parlato di “mancanza di finezza” in riferimento al film, ma forse a disturbare è piuttosto “l’alleanza, così insolita, fra il senso del comico e quello del sacro” (Fabio Ferzetti, L’Espresso) che attraversa tutto il film, il quale non è una semplice satira condotta sulle differenze di classe, né una polemica moralista contro gli orrori del capitalismo. Ostlund va ben oltre e crea un film acutissimo dove a parlare sono i corpi e le fisiognomiche, dove si scoperchiano le ipocrisie e le incoerenze di un mondo che non cambia mai, studiato con la spietatezza e la crudeltà di un entomologo del cinema.