Un inno alla vita, un’esplorazione del rapporto padre – figlio, una storia che sfata il concetto di “lieto fine”: Guillermo Del Toro riscrive l’immaginario collodiano nel Pinocchio di Netflix
Ci lavorava da quindici anni; l’aveva annunciato nel 2017, in occasione della doppia vittoria al festival di Venezia e alla serata degli Oscar per il suo capolavoro The Shape of Water – La forma dell’acqua (2017), e la notizia aveva elettrizzato i fan. Guillermo Del Toro, autore cult de Il labirinto del fauno (2006), si sarebbe occupato di un progetto d’animazione in stop – motion dedicato al burattino più famoso del mondo nato dalla penna dello scrittore toscano Carlo Collodi. Un anno fa il lancio del teaser e il 4 dicembre scorso è finalmente approdato su Netflix: Pinocchio ha diviso critica e pubblico fra chi addita al capolavoro e chi invece al sacrilegio, ma c’è chi replicherebbe: quale capolavoro non divide i pareri di critica e pubblico?
Rompiamo fin da subito il tetto di cristallo: si, Pinocchio è un capolavoro. Lo è per vari motivi, fin dalla scelta di impiegare il miglior animatore sulla pista di Hollywood, Mark Gustafson, per costruire un mondo cinematografico a metà fra CGI e stop – motion – dunque sospeso fra digitale e analogico, computer e mano dell’uomo -.
Del Toro, che come sempre ha messo mano anche alla sceneggiatura (scritta a due con Patrick McHale, autore fra gli altri della acclamata serie Tv Adventure Time, 2010 – 2018), recupera solo alcune suggestioni dal prototipo collodiano, innanzi tutto il tema cristallino e parabolico del rapporto tra padre e figlio e dei figli che necessitano di un disperato bisogno di sentirsi amati e accettati dai padri.
Ma quello di Pinocchio, nella riscrittura di Del Toro, è un padre che il figlio già l’aveva. Si chiamava Carlo, ma viene sottratto bruscamente a mastro Geppetto (David Bradley) a seguito della caduta di una bomba. La vicenda si svolge infatti a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale e le avventure del burattino vivente si svolgono nel pieno del Ventennio fascista per “mostrare un mondo in cui ognuno si comporta come un burattino e ubbidisce, mentre il vero burattino è l’unico a disubbidire” come ha tenuto a precisare il regista stesso. Dopo la tragica perdita del figlio, Geppetto, per esorcizzare il dolore e il lutto, crea un burattino al quale verrà poi concessa la vita. L’essenza della fantasia di Del Toro è già tutta qui: non c’è nessuna Fata Turchina, ma delle inquietanti guardiane alate con miriadi di occhi – che per intenderci ricordano nel concept l’Angelo della Morte di Hellboy: The Golden Army (G. Del Toro, 2008) – che infondono la vita al burattino, donando un figlio che Geppetto non avrebbe voluto.
Iniziano una serie di (dis)avventure che porteranno Pinocchio ad incontrare il Conte Volpe (Chrisoph Waltz) che cercherà di sfruttarlo per i propri show, a morire e risuscitare più volte emergendo da un limbo – utero governato da una creatura simile ad una sfinge, ad essere catapultato non nel canonico Paese dei Balocchi ma in un campo giovanile d’addestramento militare fascista per trasformarlo nel “soldato perfetto”. Il tutto narrato da un grillo parlante (Ewan McGregor), impegnato con la scrittura della propria autobiografia e appassionato lettore di Arthur Schopenhauer.
Del Toro stesso ha affermato di voler confezionare “una storia di cui credevamo di conoscere tutto, ma che non conoscevamo affatto” e procede allo scardinamento dell’immaginario collodiano, distanziandosi sia dal riadattamento di Robert Zemeckis della Disney quanto dal film affine al modello ottocentesco di Matteo Garrone – per far riferimento solo ad esempi recenti – e creando una galassia tutta sua, un film dalla pregnanza autoriale rara, maestosa, magistrale, centrata in ogni punto. Del Toro rimane sé stesso e lavora come ha sempre fatto: inventando, narrando, stupendo con trovate eretiche capaci di far parlare testi o personaggi piegati dall’ortodossia dell’immaginario comune e rimanendo fedele alla propria filmografia.
Infatti, questo Pinocchio che ha un po’ del Frankenstein – a tal proposito si guardi bene la scena nella quale Geppetto costruisce la marionetta – è forse solo l’ultimo di quei mostri buoni che popolano l’immaginario del regista messicano, dal Fauno del film del 2006 alla creatura anfibia di The shape of Water, ma a differenza di questi stavolta si ha a che fare con un “corpo agito dall’esterno”, un ibrido, un “robottino animato” che ricorda quelli di Pacific Rim (G. Del Toro, 2013), “una statuina in un presepe vivente, (…) un povero Cristo: invocherà il padre inchiodato a una croce, e come una croce porterà sulle spalle i mali del mondo, scontando il peccato originale di non essere lui il figlio unico, il figlio vero, il figlio tanto amato” (Maria Sole Colombo, FilmTv).
Ci sono ancora il pescecane, il carro dei burattini, Lucignolo (a cui presta la voce la star di Stranger Things Finn Wolfhard), ma è chiaro che Del Toro stia puntando a realizzare una storia che sia piegata al suo gusto, che possa metabolizzare secondo la propria visione del mondo (e del cinema), piegandolo alla propria maniera.
Il risultato è una favola dark che compone un inno alla vita, che pur facendo proprie alcune consuetudini disneyane – ci sono, ad esempio, pezzi cantati – si muove in esplicita controtendenza, sfatando persino il concetto di “lieto fine” e chiudendo le avventure di Pinocchio con un finale di una poesia così intensa e non comune non solo per un film d’animazione ma per il cinema attuale tout court.
Perché Del Toro è così, è uno dei pochi capaci di creare universi brulicanti di vita, a suo agio nelle vesti di cantastorie in un mondo che spesso ha smesso di credere alle favole.
Fatevi un regalo, dopo aver visto Mercoledì di Tim Burton, uscita in concomitanza col film di Del Toro rischiando così di vanificarlo, rimanete su Netflix e concedetevi due ore di pura poesia. La vostra anima ve ne sarà riconoscente.