Il ritratto di oggi è dedicato a Primo Levi (1919-1987). Non ha certo bisogno di grandi presentazioni, egli è stato (ed è tuttora) una pietra miliare nella letteratura italiana. Attraverso i suoi memoriali fu uno dei primi a mostrarci il dramma e le conseguenze dell’Olocausto patito sulla sua stessa pelle.
Nacque a Torino in una famiglia di ebrei colti e benestanti. Il nonno paterno era un ingegnere civile, suo padre un ingegnere elettrotecnico perennemente in viaggio per lavoro. Il nostro cresce attorniato da libri e dall’amore per la scienza. Fin da ragazzino sviluppò una gran passione per la chimica. Era però di salute cagionevole, ma come scusa per saltare le lezioni non era sufficiente tanto che i suoi lo fecero seguire da precettori privati.
Leggeva di tutto, dai classici (e ne ritroviamo lo stile nei suoi romanzi) ai libri di scienza, di zoologia e di fantascienza. Più avanti arrivò a commentare sia l’allunaggio del 1969 che il disastro di Chernobyl del 1986.
Aveva una mente scientifica e l’animus dello scrittore. Lui stesso si definì un centauro ovvero un ibrido plasmato da due metà. E di centauri scrisse, peraltro. Chi lo ha conosciuto ne ha sempre parlato come di un uomo cordiale, riservato ma capace di momenti di esuberanza. Colpiva la sua curiosità e ancora di più la sua incrollabile fiducia nella razionalità umana, in sintesi era un illuminista del novecento.
Ma noi torniamo al 1935. Il regime fascista è nel pieno della sua forza e chi si oppone fa una brutta fine. Suo padre – di malavoglia – si iscrive al partito mentre Primo Levi compensa iscrivendosi al liceo Massimo D’Azeglio, dove era passato il fior fiore dell’opposizione, giusto per far capire che aria tirasse in famiglia. La chimica e la biologia sono il suo pane. È uno studente brillante anche se timido. Per un certo periodo ebbe come insegnate Cesare Pavese. Ma niente… venne lo stesso rimandato in italiano. Dopo il diploma si iscrisse alla facoltà di Chimica e nel frattempo arrivarono le leggi raziali che impedivano agli ebrei di iscriversi all’università ma consentivano a chi già è in corso, di terminare gli studi.
Per quanto la famiglia in qualche modo fosse osservante delle nuove norme fasciste, questo giro di vite gli fece aprire gli occhi sulla natura del regime in tutta la sua crudezza.
“[…]le leggi razziali furono provvidenziali per me, ma anche per gli altri: costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo. Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo (quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da vederne quello sciocco”.
Il nostro si laureò a pieni voti nel 1941 ma sull’attestato di laurea figura la precisazione: “di razza ebraica”, il che la dice lunga sul periodo che stava passando. Intanto la famiglia attraversava un periodo di difficoltà finanziarie e Levi venne assunto in nero (il periodo era quello giusto) in una cava vicino Torino. Il suo compito era quello di estrarre il Nichel. Nulla di eccitante in realtà. E difatti l’anno successivo si trasferì a Milano per impiegarsi in una ditta farmaceutica: la Wander.
Intanto la guerra era ovunque e i nazisti pure. Levi si rifugiò sopra Aosta per unirsi ai partigiani. Ma questi erano ragazzi come lui, pieni di ideali e buone intenzioni ma sprovveduti e sprovvisti di armi. Il risultato fu che Il 13 dicembre del 1943 venne catturato dalle milizie fasciste, portato a Fossoli e, da lì, deportato ad Auschwitz III – così veniva chiamato il campo Buna-Monowitz – con il numero 174517.
Le sue conoscenze scientifiche e un po’ di rudimenti di tedesco fanno sì che venga spostato nel laboratorio chimico dove le condizioni erano leggermente migliori che altrove. Ma la cosa che più attenuò la prigionia fu l’incontro con Lorenzo Perrone, un operaio che non solo lo aiutò a procurarsi razioni extra di cibo ma fece anche da tramite per trasmettere dei messaggi alla famiglia. Questo, tuttavia, non fu sufficiente ad arginare la profonda crisi religiosa e identitaria che patì nel lager. In realtà fino a quel momento non sembrava nemmeno aver colto appieno il suo essere “diverso”.
“Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata imposta. “
e ancora:
“L’esperienza di Auschwitz è stata per me tale da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa… C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”.
Si ammalò di scarlattina. Ma non tutto il male viene per nuocere, infatti questo gli impedì di essere evacuato in pieno inverno verso i campi di Buchenwald e Mauthausen dove dei 650 compagni di sventura, ne sopravvissero solo 20.
La liberazione avvenne il 27 gennaio del 1945. Ma per il rimpatrio dovette aspettare ottobre.
Levi impiegò parecchio tempo per tornare nella sua Torino. Ricominciare a vivere normalmente fu cosa lenta e dolorosa, così come riallacciare i rapporti con gli altri, i sopravvissuti.
Ad aiutarlo sono due cose: il lavoro che, se amato, è una gran medicina dello spirito e Lucia Morpugno che diviene sua moglie nel 1947. Gradualmente la vita riprende a scorrere e lui decide di dedicarsi alla scrittura.
Pubblica Se questo è un uomo, ovvero un memoriale sulla sua esperienza di deportato. Il linguaggio è crudo, privo di fronzoli o retorica. Solo fatti e nemmeno l’ombra di un’accusa.
Ma la guerra era appena finita, la gente non vuole saperne di orrori, e poi c’erano ancora gli echi del processo di Norimberga; sta di fatto che il libro venne rifiutato da quasi tutti gli editori, persino Einaudi. Per due volte.
A pubblicarlo fu l’editore De Silva con poco successo. Si dovette aspettare il 1958 affinché il romanzo trovasse posto nel mondo grazie alla collana dei Saggi Einaudiani. Eh sì, a volte ritornano.
Sono gli anni della consapevolezza, parole come Olocausto e Shoah entrano nel linguaggio comune. Questa volta il successo è straordinario. Il libro venne tradotto pure in tedesco.
Incoraggiato dall’accoglienza nel 1963 pubblicò La Tregua, ovvero la cronaca del suo rocambolesco ritorno a casa. L’opera gli valse il premio Campiello.
Questi due memoriali lo collocano ai massimi vertici del panorama letterario italiano e lui, nonostante il lavoro in fabbrica, continua a scrivere. Stavolta sperimenta il filone fantascientifico con la raccolta di racconti: Vizio di forma in cui arriva a scrivere di manipolazione genetica. L’esperimento funziona perché successivamente pubblica un’altra raccolta di fantascienza umoristica intitolata Storie Naturali che tanto naturali non sono, ma che gli valgono il premio Bagutta nel 1967.
Ma il nostro aveva anche la capacità di fare accostamenti originali tra la sua vita personale e professionale e tutti i 21 elementi chimici presenti in natura, quindi con guizzo e una certa dose di ironia, scrive 21 racconti che pubblica col titolo: Il sistema periodico che gli vale il premio Prato.
Dai suoi scritti emerge una certezza: Levi amava il suo lavoro e considerava basilare il fatto di potersi appassionare al proprio mestiere, quale che fosse. Concetto che troviamo nel romanzo semiserio La chiave a stella il cui protagonista, Faussone, è un operaio specializzato che gira il mondo, possiede una fiducia incrollabile in se stesso e negli altri uomini ed è convinto che un lavoro ben fatto, nobiliti anche la parte spirituale del proprio io. Chissà cosa scriverebbe oggi. Il linguaggio è leggero, ottimista, pieno di slang piemontesi. E gli fa vincere il premio Strega nel 1979.
(…) l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
Successi, agiatezza economica, la nascita di due figli, i viaggi di lavoro ma anche commemorativi (toccante fu la sua visita ad Auschwitz nel 1965), non gli avevano fatto dimenticare i 13 mesi di internamento. Ancora una volta torna in lui il bisogno di raccontare la guerra attraverso le avventure picaresche dei partigiani che ritroviamo in Se non ora quando che gli fa vincere un secondo Campiello.
Non tutti sanno che Primo Levi era anche un poeta. Sue sono le silloge intitolate L’osteria di Brema che venne pubblicata solo nel 1970 con una tiratura di appena 300 copie che però furono scritte prima della prigionia.
E arriviamo al suo ultimo romanzo che vede le stampe nel 1986: I sommersi e i salvati. Stavolta i toni sono cupi e gli argomenti spinosi, Levi porta a compimento le riflessioni e le testimonianze che avevano animato Se questo è un uomo, ma ci si legge anche l’inquietudine sua (e del mondo) verso lo sbiadirsi della memoria di Auschwitz come se questo significasse cancellare la propria identità e relegare ciò che è stato, nel dimenticatoio. Non a caso il primo capitolo è dedicato alla Memoria dell’offeso.
È accaduto, quindi può accadere di nuovo.
Parole sante. Purtroppo il trauma di quanto patito non è mai stato superato. Primo Levi muore presumibilmente suicida nel 1987.