Il ritratto di oggi è dedicato a Harper Lee (1926 – 2016). Si può cambiare il mondo con un libro? La risposta è Sì. Non è cosa da tutti o da tutti i giorni, tuttavia, a volte, la letteratura ci fornisce esempi mirabili sulla potenza della parola. E quello di oggi ne è una prova inconfutabile.
Harper Lee nasce a Monroeville in Alabama. Sono gli anni della segregazione e il Ku Klux Klan la fa da padrone. La famiglia è benestante e bianca. Considerato luogo e tempo, non era poco. Il padre di Harper è uno stimato avvocato e lei ha una sorta di adorazione per lui; ne segue i casi in tribunale e ascolta le sue orazioni a casa. Una casa zeppa di libri, come resistere? L’infanzia passa serena, Harper scribacchia racconti e tra le sue amicizie c’è quella con un giovanissimo Truman Capote che invece ha alle spalle una situazione familiare difficile ed era spesso preso di mira dai bulli del quartiere per come vestiva. A difenderlo c’era lei: Harper. I due saranno amici per tutta la vita.
A scuola la ragazza ha un carattere timido, quasi schivo. Legge moltissimo e la sua materia preferita è, manco a dirlo, letteratura inglese. Al college partecipa alle attività del giornale scolastico e scrive altri racconti ma nulla di che. Risale a questo periodo la traccia di una romanzo che rimarrà nel cassetto per un pezzo. Solo Truman la incita a continuare su questa strada intuendo in lei, la stoffa della romanziera.
Terminate le scuole, però, Harper ricalca le orme paterne e si iscrive alla facoltà di legge. Ma non funziona, fa una sorta di Erasmus a Oxford per poi tornare, nel 1949, a New York decisa a diventare scrittrice. Qui si impiega nella biglietteria di una compagnia aerea e ritrova l’amico Truman il quale si stava facendo largo nel mondo giornalistico. Nella grande mela Harper ha molte più possibilità di realizzare la sua vocazione che altrove infatti conosce dei mecenati: la ricca famiglia del compositore Michael Martin Brown. Lui e sua moglie le offrono la possibilità di abbandonare il lavoro e dedicarsi per un anno intero a scrivere. Insomma, cosa può volere di più uno scrittore?
Harper rinsalda l’amicizia con Truman e si getta a capofitto nel suo progetto anzi, è proprio l’amico a incitarla a riprendere quel vecchio romanzo lasciato nel cassetto e anche a dargli una mano.
Truman infatti stava seguendo una vicenda molto discussa per conto del New Yorker: l’omicidio di quattro membri di una famiglia del Kansas e propose ad Harper di fargli da assistente. Lei non se lo fece ripetere due volte e insieme partirono per il Kansas.
In questo nuovo ruolo, Harper aveva la possibilità di intervistare gli accusati e partecipare alle indagini. Esperienza che probabilmente fu alla base del suo romanzo. Tutta la passione per la legge e per la letteratura ritorna in perfetto stile tsunami.
Rientrata a New York si chiude in casa e si dedica al romanzo nel cassetto che originariamente aveva il titolo di To kill a Mockingbird (Uccidere un usignolo). Il romanzo vide la luce nel 1960 con il titolo: Il buio oltre la siepe.
Vendette oltre 30 milioni di copie, si aggiudicò il Pulitzer e un’altra valanga di premi oltre alla strepitosa trasposizione cinematografica vincitrice di tre Oscar. Come esordio non c’è male.
Per quei pochi che ancora non lo conoscono, la storia è ambientata negli anni ’30 in una cittadina di nome Maycomb ed è narrata quasi interamente dal punto di vista di una ragazzina di nome Scout figlia dell’avvocato Atticus cui viene affidato l’ingrato compito di difendere Tom Robinson, un nero accusato di stupro ai danni di una bianca. Insieme a Scout ci sono suo fratello Jem, l’amico Dill e un personaggio che vive ai margini della società ma che alla fine avrà il suo riscatto: Boo Radley.
Non occorre essere dei geni per carpire i molti riferimenti autobiografici; dal nome della cittadina dove si svolge il romanzo simile a Monroeville, all’analogia con la professione del padre, all’amico Dill, che è la copia su carta di Truman Capote.
Visto il periodo, il luogo e le vicende narrate, inutile dire che il romanzo fece moltissimo parlare di sé. Harper Lee riuscì a dimostrare una via alternativa al pregiudizio, non solo razzista ma anche nei confronti del “diverso” di chi, cioè, viveva in modo differente, come nel caso di Boo. Pur essendo un libro piuttosto corto con una trama semplice, Il buio oltre la siepe nasconde messaggi importanti e per nulla scontati in una società come quella statunitense degli anni Sessanta. Di fatto, il messaggio principe è un chiaro invito a valutare le persone in modo empatico fino a superare qualsivoglia pregiudizio, che sia il colore della pelle o un stile di vita diverso. Insomma, superare la siepe e illuminare di luce sincera il buio che essa cela.
E del resto lo stesso Atticus dice:
Non si conosce realmente un uomo se non ci si mette nei suoi panni.
A proposito di panni, Tom Robinson venne riconosciuto innocente. E lo era.
Dopo aver letto il romanzo, il padre di Harper le scrisse un biglietto:
«Dovrai darti molto da fare per superare questo, la prossima volta».
Che fosse per la paura di non riuscirci, per i premi o per i quattrini che piovvero a catinelle su di lei, fatto sta che Harper Lee si ritirò a vita privata. Collaborò alla stesura di un testo di Capote (A sangue freddo), e il successivo lavoro, lo pubblicò con calma e sangue freddo cinquant’anni dopo, nel 2015 col titolo: Và e metti una sentinella. Anche se è un sequel de Il buio oltre la siepe, Harper dichiarò di averlo scritto ben prima. I personaggi sono gli stessi ma è ambientato un ventennio dopo, negli anni Cinquanta. Qualcuno pensa che sia una prima stesura e che l’editore consigliò ad Harper delle modifiche.
Visto il ritmo con cui scriveva, questo fu l’ultimo. Harper passò gli ultimi anni della sua vita in una residenza per anziani fuori Monroeville, lontana dai riflettori e dai giornalisti. Tra le pochissime persone ammesse alla sua presenza figurava la figlia di Gregory Peck, l’immortale Atticus del cinema. Non si era mai sposata né aveva avuto figli.
Muore nel 2016 a quasi novant’anni.