Il primo è un film semi – autobiografico, il secondo un kolossal dagli strabilianti effetti visivi. Tanto diversi eppure accumunati da un fatto: entrambi imperano al box office delle feste
Il 2022 ci ha riservato tante sorprese. Bellissimi film, grandi ritorni – da Sam Raimi a Baz Luhrmann -, ottime serie televisive. Per questo non potevo non dedicare l’ultima recensione di quest’anno a due film tanto attesi come The Fabelmans e Avatar – La via dell’acqua, uscendo temporaneamente dal seminato del format di questa rubrica che impone di trattare un film per volta. Ma tant’è, non si può rimanere impassibili di fronte a due opere che stanno sbancando il box office natalizio, in Italia quanto nel resto del mondo (si pensa che il film di Cameron possa entrare nel 2023 superando il miliardo di dollari d’incasso, come si era previsto).
The Fabelmans – Regia di Steven Spielberg con Paul Dano, Michelle Williams, Gabriel LaBelle, Julia Butters, Judd Hirsch, David Lynch

A 75 anni il grande regista Steven Spielberg fa i conti con sé stesso, col proprio passato e soprattutto con la sua grande passione per il cinema. The Fabelmans è un lungometraggio semi – autobiografico che richiede un’attenzione diversa per gli standard fruitivi ai quali ci ha abituato il regista di Lo Squalo (1975), Jurassic Park (1993) E.T. – L’Extraterrestre (1982) e tante altre pellicole che si sono imposte fin da subito nell’immaginario collettivo.
The Fabelmans si può considerare come il personale tentativo dell’autore di mappare la propria propensione al fare cinema, a partire dal primo film che l’ha folgorato, quel Il più grande spettacolo del mondo (1952) diretto da Cecil B. DeMille che tanto folgorò l’immaginazione del giovane Spielberg – soprattutto la scena del deragliamento del treno – che lo portò ben precocemente ad occuparsi di filmini amatoriali girati con la sua inseparabile super8.

Ma come in ogni buon film di questo filone, da Nuovo Cinema Paradiso (G. Tornatore, 1988) al recente Belfast (K. Branagh, 2022), il regista si cela dietro un alter ego e una costruzione mitopoietica al solito senza sbavature. Al giovane attore canadese Gabriel LaBelle il compito di vestire i panni di Sammy Fabelman, chiave di volta per penetrare all’interno dell’universo domestico della famiglia omonima trainata dalla madre Mitzi (Michelle Williams) a dal padre Burt (Paul Dano); la prima artista, sognatrice, persa nel suo egoistico mondo fatto di sogni e passioni infrante, il secondo uomo di successo, ingegnere, stretto fra il ruolo integerrimo di capo famiglia e un’etica che talvolta odora di auto – repressione. I Fabelmans sono divisi fra artisti e ingegneri, fra chi si diletta di film o composizioni musicali e chi va forte con l’algebra e la geometria. Ma non è solo ciò a dividere questa famiglia ebrea perfettamente integrata negli usi e costumi dell’America degli anni Cinquanta, diverse sono le insidie, i momenti, gli scoramenti che sembrano far implodere il nucleo famigliare. Ma nonostante tutti questi ostacoli, rimane monolitica l’unica certezza del figlio maggiore Sammy/Steven: fare cinema. Davanti a questo tutto non può che cadere in secondo piano: gli amori, l’algebra, i problemi della madre, l’invidia delle sorelle, tutto è sacrificabile pur di arrivare a fare cinema, o anche solo televisione (non si dimentichi che Spielberg debutterà nel 1971 con Duel, lungometraggio televisivo, dopo una lunga gavetta nel mondo della tv), perché il più grande insegnamento dei suoi genitori è e resterà lo stesso: “va dove ti dice il cuore”, e questo Spielberg l’ha sempre tenuto a mente durante gli anni della sua carriera, anche ora che firma il suo film più personale e testamentario, fra le più belle prove di regia dell’ultimo Spielberg.

E il finale sa tutto d’inizio: Sammy/Steven incontra il più grande fra i grandi, quel John Ford che il regista non si stancherà mai di citare nelle proprie pellicole. Ford, interpretato dal grandissimo David Lynch – secondo alcune fonti per mesi inseguito da Spielberg al fine di convincerlo a recitare la parte – gli darà il primo grande consiglio: “Quando l’orizzonte è in alto, è interessante. Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è nel mezzo, è fottutamente noioso”.
Spielberg parte da qui. Il resto è storia. Storia del cinema.
Avatar – La via dell’Acqua – Regia di James Cameron, con Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Kate Winslet, Stephen Lang

Era possibile fare meglio di Avatar (2009), un film spartiacque che per anni ha mantenuto la prima posizione sul podio dei maggiori incassi della storia del cinema? Mi piace ripetere che ci sia stato un prima e un dopo Avatar, perché a seguito del penultimo lungometraggio di James Cameron il modo di creare e vedere immagini al cinema è cambiato. Nel 2022, dopo anni che ne aveva preannunciato l’uscita, Cameron prosegue il lavoro sulle storie del pianeta Pandora assediato dagli umani che, rimasti poveri di risorse sulla terra, necessitano di colonizzare altri pianeti. Nel frattempo l’ex marine Jake Sully (Sam Worthington) ha messo su famiglia con la fanciulla Na’Vi Neytiri (Zoe Saldana). Ma una vecchia minaccia sconvolge la serenità della famiglia e la pace su Pandora.
Cameron torna su uno dei suoi temi preferiti, la famiglia – e la genitorialità -, una famiglia stranamente assemblata (come tutte le famiglie cameroniane, si pensi a Terminator, 1984 o Aliens – Scontro Finale, 1986 ), analizzata con occhio più clinico rispetto al primo film della saga. A questo aggiunge un altro tema primariamente cameroniano: il dualistico solido vs liquido che attraversa tutta la filmografia del regista. In The Abyss (1989) l’acqua era sfida e mistero, in Titanic (1997) era avversaria e mortifera, qui è amica e protettrice, genitrice e conciliatrice, un’entità che avvolge i personaggi – e l’intero film, dato che la maggior parte delle riprese sono subacquee o a fil d’acqua – e rappresenta il perno della parabola ecologica che rimane sullo sfondo del film. Sì, perché non dobbiamo dimenticare che Avatar – La via dell’Acqua ha il primo scopo di stupire e meravigliare; la sua natura rimane quella di un kolossal, un titanico blockbuster da consumare con gli occhi nelle 3 ore e 20 di durata pur basandosi su un esilissimo schema narrativo (Cameron non è un maestro delle sceneggiature, pur essendo in grado di creare mondi mitopoietici assolutamente coerenti). Ma è solo questo? Qual è la potenza di un film che oggi, tra i vari mirabolanti cinecomic, potrebbe essere inficiato nella sua portata effettistica e visiva? È qui che Cameron vince la sfida. Avatar – La via dell’Acqua non va semplicemente visto. Va sentito, lo si deve attraversare, bisogna immergervisi, bisogna farsi catturare dalle sue immagini impiegando gli schermi più grandi possibili (per questo va visto categoricamente al cinema, in sala), magari utilizzando anche il 3D.
Se l’approccio produttivo è ancora profondamente cormaniano, l’operazione visiva è quella di un maitre bricoleur, un progetto che sfiora la perfezione, l’ennesimo tassello di quel cinema – evento del quale Cameron è maestro indiscusso.
Se è vero che “del poeta è il fin la maraviglia”, per citare un verso di Gian Battista Marino, stavolta il regista si spinge oltre arrivando a vette sconosciute della creazione visiva, ottenendo immagini che sono già oltre – immagini, qualcosa di così inedito e affascinante da scavalcare l’interesse per la trama in sé e per sé. Il risultato finale è persino migliore del primo film del 2009.
Quindi sì, per rispondere alla domanda che ha aperto la recensione. Cameron è riuscito a superarsi, ad andare oltre, e perseguire il programma di una vera e propria “avanguardia di massa”, come l’ha definita lo studioso Roy Menarini.
La sfida è vinta doppiamente, perché Cameron è riuscito anche a fare quello che non accadeva da un po’: ci ha riportato in sala, ci ha fatto rivivere i cinema gremiti, le file per i biglietti, le sgattaiolate al bagno per non perdere nemmeno un secondo del film, l’odore di pop corn che invade la sala.
Un film così non si vede tutti i giorni.