Il ritratto di oggi è dedicato a Ian Fleming (1908 – 1964), il padre letterario dell’agente segreto più famoso del mondo.
Ci sono persone che nascono con la camicia, altre vengono al mondo con grande stile e direttamente in smoking. Ian Fleming appartiene alla seconda categoria. La sua famiglia era di nobili e antiche origini inglesi, il padre era un deputato dei Tory oltre che Ufficiale della Riserva e, per quella strana legge per cui piove sempre sul bagnato, era pure nipote di Robert Fleming, facoltoso banchiere scozzese che avrebbe fatto impallidire Paperon de Paperoni.
Tuttavia anche i ricchi piangono: con la prima guerra mondiale papà Fleming viene richiamato al fronte e muore lasciando la moglie unica erede a patto che non si risposi. E così fu. Ah, il magico potere dell’amore…
Il giovane Ian, (era il secondo di quattro fratelli) aveva solo nove anni e una sconfinata adorazione per il padre, il quale doveva essere una figura assai dominante in casa. A seguire le sue orme, tuttavia, è il figlio maggiore Peter che, al contrario del fratellino, era serio, osservante del bon ton e brillante negli studi.
Ian doveva sentirsi un po’ la pecora nera della famiglia, forse è per questo che invece di seguire Peter a Oxford, nel 1921 si iscrive a Eton. La severa disciplina del collegio, però, mal si concilia con la sua natura irriverente e dedita per lo più alle feste, meglio se con gran bevute di whisky. Diciamo che le sue doti migliori le conservava per lo sport, in cui eccelleva, e per le ragazze. Fu proprio un segretissimo rendez-vous amoroso a costargli l’espulsione da Eton. Alla povera mamma non restò che spedire lo scapestrato figliolo all’Accademia Militare di Sandhurst dove il nostro rimase assai poco. Così viene di nuovo impacchettato e mandato da amici in Austria. Aria fresca, montagna e neve sono il suo elemento, non a caso moltissime scene dei suoi romanzi si svolgono in ambienti analoghi. Per un po’ fa il turista all’Università di Monaco di Baviera e di Ginevra, ma senza grossi risultati. Tenta col giornalismo e scribacchiando qualcosa, ma niente.
Il punto è che mettere nella stessa frase parole come fatica, responsabilità e Ian Fleming, non era proprio cosa. Ma, come scritto all’inizio, il nostro era nato in smoking quindi alla morte del nonno si improvvisa banchiere.
A salvare i beni di famiglia arriva la seconda guerra mondiale e lui viene arruolato. A fargli da balia è il fratello antipatico di Cattivissimo ME: l’Ammiraglio John Edmund Godfrey, direttore della Naval Intelligence Royal Navy. L’Ammiraglio era famoso per il suo carattere difficile e scontroso che gli aveva procurato non pochi nemici ai piani alti. Così Fleming diventa il suo “ufficiale di collegamento” col grado di capitano di corvetta.
Durante questo periodo Ian vive il contesto della guerra, il suo gergo, i suoi codici e, soprattutto, conosce Dalzel-Job. Questi era membro dei Royal Marines, una sorta di super soldato che sapeva fare di tutto: sciare su ghiacciai perenni con un fucile a tracolla, pilotare un sottomarino, buttarsi con il paracadute e cosucce simili. Aveva anche una grandissima fiducia in se stesso e una leggera allergia verso i superiori, infatti si guadagnò una medaglia (ma solo dal governo norvegese) per aver effettuato praticamente da solo e senza appoggi, l’evacuazione di un villaggio in Norvegia poco prima del bombardamento nazista. Chi vi ricorda?
Anche Fleming partecipò a moltissime azioni di guerra, era ferrato soprattutto nella strategia militare, nell’uso di codici e di documenti falsi ai danni delle spie tedesche. Per un po’ fu anche al servizio (indiretto) di Franklin D. Roosevelt e per l’Office of Strategic Services, ovvero la CIA. Prima dello sbarco in Normandia aveva collaborato al progetto Golden Eye che mirava a preservare la rete di spie alleate in caso di invasione tedesca in Spagna. Insomma, tutte le avventure vissute durante la guerra furono decisamente di ispirazione per i suoi romanzi.
Alla fine del conflitto il nostro torna a casa e fa tre cose: compra una tenuta in Jamaica e la chiama Goldeneye, diventa capo dei servizi esteri per la catena di giornali Kemsley (ma solo per una manciata di anni) e nel 1952 si sposa con la contessa di Charteris di cui era stato l’amante. Proprio durante il viaggio di nozze scrive Casinò Royale, il primo libro in cui compare James Bond. Il nome lo aveva rubato a un ornitologo americano; qualcuno dice che furono amici, altri che lo aveva scelto in quanto nome banale. Sta di fatto che il Bond letterario proprio banale non è: ha fascino, si muove con agilità tra sotterfugi e pericoli, guida rigorosamente auto inglesi e beve martini shakerato non mescolato. Insomma James Bond ha dato vita a uno dei franchising più longevi e redditizi del mondo. Tuttavia la fortuna editoriali arrivò tardi. Per quanto la critica lodasse i suoi lavori, questi non ebbero il successo che ci si aspettava. Ma Fleming, lungi dallo scoraggiarsi, produsse 12 romanzi – uno all’anno – più due raccolte di racconti sull’agente 007 oltre a un romanzo surreale intitolato Kitty Kitty Bang Bang. Usava scrivere durante i mesi invernali che passava in Jamaica producendo 2000 parole al giorno (non una di meno) e alternando le ore di scrittura alla pratica del golf, della pesca e del tennis per distrarsi dalle noie del matrimonio. La moglie ringrazia.
Tuttavia ci volle la trasposizione cinematografica per far decollare Ian Fleming come romanziere. La prima interpretazione su schermo, in realtà, fu un breve episodio di Casinò Royale trasmesso nel 1952. Da lì in poi, silenzio stampa. Fleming scrisse la sceneggiatura di 007-Licenza di uccidere e la propose a tutti i registi e produttori che conosceva ricevendo fior di rifiuti tra cui quello di Alfred Hitchcock. Ci vollero altri dieci anni di tentativi prima di approdare al cinema e al conseguente boom.
Il successo fu straordinario e inatteso pure per lo stesso autore che si ritrovò ad avere dei fan del calibro di John F. Kennedy. A dire il vero dopo otto romanzi, Fleming si era stufato di James Bond in quanto voleva essere preso sul serio dai lettori, dagli amici intellettuali di sua moglie e da tutti quelli che lo consideravano un mediocre scrittore di romanzetti commerciali. Così tentò di uccidere 007 in Operazione Tuono, ma un conto è fare il salto della quaglia, un altro è uccidere la gallina dalle uova d’oro. Così lo lascia agonizzante, ma vivo. E redditizio. Ma cambiò strategia: in La spia che mi amava inserì una voce narrante femminile relegando James Bond quasi nel ruolo di spalla di una bellissima donna che incrocia il mondo delle spie, della Spectra e di 007 un po’ a caso. Il romanzo fu un tremendo fallimento e Fleming scrisse al suo editore Michael Howard:
“Sono sempre più sorpreso di scoprire che i miei thriller, pensati per un pubblico adulto, vengono letti nelle scuole, e che i giovani hanno fatto di James Bond un eroe … Quindi mi è venuto in mente di metterli in guardia sul conto Bond … l’esperimento è evidentemente andato storto”.
Col passare del tempo il sogno di Fleming, di essere cioè riconosciuto come ottimo scrittore, si è avverato anche se purtroppo non ha fatto in tempo a godere di questa gloria. Muore a 56 anni a causa di un infarto.
Quello che non gli è riuscito è stato liberarsi del suo ingombrante personaggio; infatti dalla vita di Fleming è stata tratta nel 2014 una miniserie tv dal titolo Essere James Bond. Amen.