Un breve percorso tra i film più belli del regista cult di I segreti di Twin Peaks (1990 – 1991)
Il mio primo incontro con David Lynch è avvenuto a quindici anni guardando Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), un film che sulle prime non riuscii a capire e soprattutto che mi lasciò profondamente spiazzato. Penso di non aver mai visto prima un erotismo così denso come nella scena che vede Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) minacciare Jaffrey Beaumont (Kyle MacLachlan) con un coltellaccio da cucina per costringerlo a spogliarsi davanti a lei per punirlo dopo averlo trovato nel suo armadio.
Questa è soltanto una delle scene più iconiche che attraversano l’intera filmografia del regista americano classe 1946, parte di una carriera premiata con l’Oscar onorario nel 2020.
Il nostro Lynch infatti non ha mai vinto un Oscar per uno dei suoi film, nonostante Mullholland Drive (2001) sia uno delle pellicole più belle del XXI secolo e sia stato nominato dal British Film Institute come il “28esimo più grande film mai realizzato”.
La filmografia di Lynch è sicuramente sopra le righe, sebbene sia caratterizzata da pochi titoli: dieci in tutto, nei quali spesso egli figura anche come sceneggiatore, produttore, montatore e direttore della fotografia. Nel corso degli anni la sua troupe gli si è affiatata e fidelizzata, rendendo noti al grande pubblico i nomi di Patricia Norris, sua scenografa e costumista, e ancor di più il da poco compianto Angelo Badalamenti, compositore di tutte le sue pellicole e anche del suo successo su piccolo schermo: quel I segreti di Twin Peaks che è diventata la prima serie televisiva contemporanea, la prima ha trasformarsi in fenomeno di massa e che ha potuto contare sulla colonna sonora del maestro Badalamenti senza la quale sarebbe stata sicuramente meno lynciana.

Perché così pochi titoli per un autore tanto prolifico dal punto di vista immaginativo? Perché Lynch, come ha affermato in più interviste, non ha mai accettato un progetto che non fosse in grado di prendere a cuore. Quando è successo, il risultato è stato letale come nel caso del suo Dune (1984), sebbene oggi rivalutato e riscoperto come cult. Ma che il regista americano fosse un portento lo si era capito fin dal suo esordio nel 1977 con Eraserhead – La mente che cancella (Eraserhead, 1977), un delirio onirico dark senza freni inibitori, un concentrato di inquietudine fanta – biologico, una tribolata storia di un padre che mette al mondo una creatura oscena intervallata da momenti di pura illogicità diegetica.
C’è già concentrata tutta la base dell’universo tematico e stilistico del regista che qualche anno più tardi, dopo aver esplorato nuovamente il corpo e i suoi confini in The Elephant Man (1980), aver vinto il Festival del Cinema di Venezia con Cuore Selvaggio (Wilde at Hearth, 1990), road movie atipico e citazionista con scene di violenza che sfiorano quasi l’estremo, ed infine dopo essersi occupato del lungometraggio derivato dalla conclusione della sua serie, Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walks with me, 1992), dirige Strade Perdute (Lost Highway, 1997).

Il film è ora tornato in sala dopo un lungo restauro e consiglio vivamente di recuperarlo, soprattutto per la capacità innata di Lynch di rompere qualsiasi cosa possa mettere ordine all’interno di un universo narrativo – tendenza poi portata alle estreme conseguenze in Inland Empire – L’impero della Mente (Inland Empire, 2006) -.
Strade Perdute è un viaggio allucinato e deragliante nella coscienza del protagonista Fred Madison (Bill Pullman), ma come ogni opera lynciana è molto di più. È un film pervaso da un’atmosfera perturbante fin dalla chiamata dell’uomo misterioso (Robert Clark) al protagonista nella quale gli dice che un certo Dick Laurent è morto, ma il film turba anche per l’intensa performance fisica di Patricia Arquette, capace di infondere un erotismo ed una sensualità che sul grande schermo non si vedono da anni.

Parlando del film sul suo profilo social, il critico Roy Menarini ha detto: “si deve ammettere che racconti così oscuri e pulsionali come Lost Highway ci provengono come UFO perché ormai assai rari, e [si deve] riconoscere che il sesso sullo schermo (con tutto il coraggio sensuale di Patricia Arquette) è parte necessaria, irrinunciabile, della trepidazione emotiva indotta da Lynch”.
È difficile etichettare i film di David Lynch: Strade Perdute, ad esempio, pur strizzando un occhio ad Alfred Hitchcock, è stato in grado di ribaltare i canoni del genere noir. Quelli di Lynch sono artefatti visivi stratificati, nati da operazioni di trans e intermedialità – si pensi di nuovo a Inland Empire -, che si sedimentano nelle coscienze degli spettatori come permanenze proprio grazie al suo approccio “dark – metal – noir – freudiano” (è sempre Menarini) che ha reso i suoi film autentici “pugni semiotici”: ci colpiscono violentemente per la carica segnica di cui sono investiti.
Rivedere Strade Perdute su grande schermo, dove questa violenza simbolica, dove tutta questa carica perturbante trova il suo spazio naturale e irrinunciabile, è un’occasione da non perdere per chiunque voglia capire come il cinema plasmi spazi, corpi e relazioni. In sintesi, come il cinema crei la vita.