Il ritratto di oggi è dedicato a Mary Shelley (1797- 1851)
L’autrice del celeberrimo Frankenstein era una filosofa, sposata a un filosofo e figlia di un brillante filosofo, William Godwin.
Una vita segnata, insomma. Anche sua madre, Mary Wollstonecraft non era da meno, basti pensare che era una convinta femminista de: Rivendicazione dei diritti della donna che nel 1792 fece fuoco e fiamme negli ardimentosi cuori dei rivoluzionari di mezza Europa financo nel Regno di Napoli.
Purtroppo la donna morì dieci giorni dopo aver partorito, nondimeno l’infanzia di Mary fu molto felice. Il padre riversò tutto il suo affetto sulla figlia cercando il lei, quello che aveva perso con la moglie. Mary, quindi, crebbe all’ombra del grande ritratto di sua madre che campeggiava in salotto e studiando tutto quello che i suoi genitori avevano scritto nella speranza di uguagliarli. Ne portava entrambi i cognomi con orgoglio e angoscia, infatti anni dopo, nella prefazione del suo Frankenstein scrisse:
“Non è strano che io, figlia di due persone di celebre fama letteraria, abbia pensato molto presto a scrivere. […] Mio marito, comunque, ebbe sempre un gran desiderio che mi dimostrassi degna della mia famiglia e che scrivessi il mio nome nel libro della fama”
Nel 1801 il padre si risposò con Mary Jane Clairmont una vicina di casa assai chiacchierata e dal passato non proprio puritano che aveva due figli (Clair e Charles) probabilmente da due compagni diversi. Inutile dire che la nostra, non la poteva soffrire e la cosa era reciproca. Con la sorellastra, invece, pareva andare d’accordo.
Quanto alla sua istruzione, fu assai informale ma molto proficua. Il padre portava spesso la prole in viaggi di istruzione, dava loro libero accesso alla biblioteca di casa e li faceva assistere alle visite degli amici intellettuali, filosofi e poeti. Mary era quella che più ne assorbiva le atmosfere, i temi e i soggetti, che in pieno periodo romantico, non potevano non far presa sull’animo di una giovanetta.
La sua adolescenza prosegui un po’ in solitaria. Mary continuava a leggere e studiare soprattutto le opere di sua madre e lo faceva nei luoghi più disparati: dal Sagrado della chiesa di Saint Pancras alla di lei tomba che, galeotta, fu il luogo ove la nostra si innamorò del baronetto Percy Shelley.
Vuoi il profumo dei fiori, inevitabili in un cimitero, vuoi l’ambiente silenzioso, (idem come sopra) insomma fu un amore travolgente, passionale e lontano da occhi indiscreti. Dato il luogo, non poteva essere diversamente.
Ma chi era costui? Ebbene oggi sarebbe additato come un rarissimo esemplare di compagno socialista (e già così meriterebbe l’iscrizione honoris causa quale membro di un qualche WWF politico). Egli era stato largamente influenzato dalle tesi radicali di Godwin che lo avevano portato a scrivere un librettino dal titolo piuttosto chiaro: La necessità dell’ateismo. Cacciato da Oxford, venne diseredato dal padre mentre gli amici lo chiamavano Shelley il pazzo. Ma lui, che soffriva di ogni ingiustizia e per la povertà del mondo, era tanto infervorato dalla sua causa da innalzare quali genitori morali, il padre e la madre di Mary. Divenne un habitué in casa Godwin. Impossibile per lui non adorare la loro figlia.
Ah, dimenticavo: era sposato e con prole. Quando annunciò al signor Godwin che voleva la sua piccola Mary come compagna di vita, l’uomo – da radicale convinto – si ritrovò un filo conservatore e proibì alla figlia di avere a che fare con quello scapestrato.
Ne uscirono fuori scenate, minacce e pettegolezzi a non finire con l’opinione pubblica schierata a favore della povera (ma regolare) signora Shelley. Insomma dopo un po’ di tira e molla, nell’estate del 1814, i due amanti fuggirono portandosi dietro Clair, la sorellastra di Mary, come improbabile chaperon. Improbabile e inutile dato che Mary era incinta. I ragazzi girarono mezza Europa e redassero un diario a sei mani che doveva sancire l’inizio di una prolifica collaborazione, in realtà il diario rimase un caso isolato, ma venne pubblicato nel 1817 col titolo: Storia di un viaggio di sei settimane, tanto durò la loro fuga.
Finiti i quattrini dovettero tornare a casa ma il signor Godwin rifiutò ogni contatto e i due si ritrovarono senza mezzi e con Shelley costretto a fuggire dai creditori. Oltretutto, per quanto i due si amassero (ci sono romantiche lettere a supporto) Shelley mal tollerava legami totalitari sacrificandoli in favore dell’amore libero, difatti aveva cercato di spingere Mary verso una relazione extra coniugale con un loro comune amico.
Non si sa se la ragazza abbia colto l’opportunità, i più sono di parere contrario. Il 22 febbraio del 1815 purtroppo Mary perse la figlia. Questo, unito alle difficoltà economiche, la precipitarono nel baratro della depressione con incubi in cui rivedeva la sua bimba. Riuscì però a riprendersi grazie anche al fatto che Shelley era entrato in possesso di un cospicua eredità e per un po’ poterono vivere decorosamente. Un anno dopo nacque un secondo figlio che la coppia chiamò William in onore di Godwin e questo fece riavvicinare il genitore alla figlia.
Arriviamo al maggio dello stesso anno. Il trio dell’amore libero, Percy, Mary e Clair, intraprese un viaggio verso Ginevra con il duplice scopo di rivedere il caro amico Lord Byron e chiarire il da farsi dato che aveva messo incinta Clair. Trascorsero piacevoli giornate nel villaggio di Cologny con Byron cui si aggiunse anche John William Polidori, colui che ha creato i Vampiri, per intenderci. Riguardo il nascituro di Clair, Byron fu irrevocabile: si sarebbe preso cura del figlio a patto che la madre non si facesse più vedere. Ma questa è un’altra storia.
Durante un piovoso pomeriggio, Polidori propose una gara per ingannare la noia: ognuno doveva scrivere il miglior racconto dell’orrore. La nostra vinse a man bassa dando origine al suo Frankenstein o il Moderno Prometeo. Questo è il titolo completo del più famoso romanzo della Shelley.
Nella versione mitologica di Platone, Prometeo è anche il creatore degli uomini, ovvero colui che restituisce il fuoco agli umanità contro il volere di Zeus. Esattamente come fa il dottor Victor Frankenstein con la sua creatura.
Vale la pena contestualizzare il periodo storico: siamo in un epoca piena di tecnologia, la rivoluzione industriale corre e con essa le tante scoperte scientifiche. E Frankenstein incarna un po’ la paura del progresso. E come? Con un mostro. La creatura diventa l’esempio di ciò che è diverso e che, per questo, fa paura e va combattuta.
“Io vidi – con gli occhi chiusi ma con una acuta visione mentale – io vidi il pallido studente di arti proibite inginocchiato di fronte alla cosa che aveva messo insieme. Vidi la forma orribile di un uomo disteso, e poi grazie all’opera di qualche potente strumento, lo vidi dar segni di vita e agitarsi con un penoso moto semi-vitale”
Nei suoi racconti e anche nei romanzi che pubblicherà più avanti, si desume una tematica incentrata sulla solitudine, sulla sofferenza e sulla difficoltà di trovare gioie durature nella vita. Mary esplora la natura umana utilizzando immagini, simboli e metafore per esprimere emozioni e stati d’animo ma anche la relazione tra uomo e scienza. I suoi personaggi lottano costantemente per trovare il significato della loro esistenza, non a caso i suoi eroi sono spesso emarginati o respinti dalla società.
Il romanzo, pubblicato nel 1818, riscosse un successo clamoroso oltre ogni aspettativa. Il rientro in patria, tuttavia, venne funestato dal suicidio della moglie di Shelley, quella regolare che lasciava due bambini. Questo consentì agli amanti di sposarsi con cerimonia privata. Lo scopo era duplice: ottenere l’affidamento dei due figli della defunta e mettere pace alle malelingue. Nessuna delle due cose si verificò. A questo punto, la famiglia lasciò nuovamente l’Inghilterra.
Seguirono anni turbolenti, tra scandali, lutti, voci di relazioni tra Shelley e la stessa Clair, figli illegittimi sparsi un po’ ovunque, pure in Italia dove la coppia si fermò a lungo e dove morì il piccolo William. Nel 1819, a Firenze, Mary partorì il suo terzo figlio, l’unico che le sopravvisse: Percy. Riprese a vivere e a scrivere.
L’anno successivo mandò a Godwin un manoscritto semi autobiografico: Mathilda, col quale dava vita alla figura dell’antieroina romantica soggiogata dall’amore verso il padre. L’argomento centrale era l’incesto. Roba forte pure per uno come Godwin che lo giudicò disgustoso e lo chiuse in un cassetto fino al 1956. Gli Shelley continuarono a viaggiare ma gli anni più felici li passarono a Pisa dove la gentilezza degli abitanti e il calore di amici intellettuali, si rivelarono una cura per entrambi. Mary pubblicò un romanzo cui pensava da tempo, Valperga Vita e avventure di Castruccio, principe di Lucca, un grandioso affresco della storia medievale e parte della storia delle donne che sua madre avrebbe voluto scrivere. Lo visse come fosse stato anch’egli frutto di una lunga e difficile gravidanza:
“È stato proprio come avere un bambino che fatica a crescere…”
Le sue pubblicazioni erano un balsamo per i conti in rosso di suo padre (che gli Shelley aiutavano spesso) e anche per lei, costantemente preda della depressione e vittima di relazione extraconiugali di Mr. Amore Libero. La nostra non pubblicò mai una vera e propria raccolta di racconti, ma si limitò a scriverli destinandoli a riviste come il The Keepsake. La maggior parte delle storie, hanno carattere prevalentemente gotico-romantico facendo di lei l’autrice romantica per eccellenza.
L’ultimo trasferimento è nel golfo dei poeti così chiamato perché l’8 luglio 1822, al largo delle sue coste, Shelley, insieme all’amico Edward Williams e al giovane mozzo Charles Vivian, perirono a causa di un naufragio e i loro corpi vennero cremati sulla spiaggia di Viareggio.
Mary si trova così sola a 24 anni insieme al piccolo Percy Florence. Disperata, rientrò a Londra che non le aveva perdonato il burrascoso passato. Qui, nella solitudine e nell’emarginazione, nonostante il suo Frankenstein venisse rappresentato ovunque, visse di scrittura.
Pubblicò un poemetto dedicato al suo Shelley, La Scelta, e due romanzi, Lodore e Faulkner. Nel 1839, oltre a Opere poetiche di Percy Bysshe Shelley, Saggi, Lettere dall’estero, traduzioni, frammenti in 4 volumi, che rimane tuttora fondamentale per la comprensione dell’opera di Percy Shelley.
Mary Shelley morì a Londra il 1° febbraio 1851 e venne sepolta accanto ai suoi genitori. La leggenda narra anche che con lei fu seppellito anche il cuore di Shelley, che un amico avrebbe sottratto al rogo.