Il film del regista belga Lukas Dhont non capitalizza i sentimenti per commuovere, ma scava nella temperatura emotiva dei personaggi – e del pubblico – per riportare al cinema l’estrema bellezza delle relazioni umane.
Ci voleva un film belga, frutto del lavoro di un regista giovane (appena 31enne), per rivedere sullo schermo la complessità e la bellezza delle relazioni umane colte in tutta la loro carica deflagrante. Lukas Dhont ci aveva già provato con successo nel suo precedente film – Girl (2018) -, altra storia di scoperta, di ricerca e accettazione, ma stavolta preferisce spingere meno sul tema queer per consentire alla storia di esplodere in tutta la sua verità emotiva.
Ha detto bene il critico Fabio Ferzetti sostenendo che con film come questi “ogni tanto un regista ci fa intravedere il futuro. Non solo del cinema ma dell’umanità”; vero, perché sembra che Dhont, con l’occhio da entomologo delle sfere della sensibilità umana, segua in tutto e per tutto il famoso motto terenziano: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono uomo, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me”).
Protagonisti due adolescenti, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), migliori amici di lunga data che si ritrovano ad iniziare insieme il nuovo anno scolastico. I due sono molto affiatati e si comportano come se la loro relazione fosse qualcosa di più di una semplice amicizia. Ciò non passa inosservato tanto da creare problemi ai due che, un po’ per paura e un po’ per vergogna, finiscono per allontanarsi. Si ritroveranno quando ormai sarà troppo tardi. A seguito di un evento luttuoso, Léo non potrà far altro che stringersi nel dolore insieme alla madre di Rémi, Sophie (Emile Dequenne).
Una storia semplice che si svolge in location limitate ma ad alta carica simbolica – pochi interni domestici, il campo da hockey su ghiaccio, i vasti spazi fioriti della campagna belga -, eppure così complessa come complesse sanno essere i rapporti interpersonali. Quella di Léo e Rémi è un’amicizia virile che non ha nulla di mitografico, ma parte dall’idea di un tipo di relazione difficilmente etichettabile, non categorizzabile, esente da pretese esaustive di definizione e che per questo prima non viene compresa e dopo verrà insidiata dal pregiudizio. I due personaggi abitano un microcosmo emotivo tutto loro, non a caso il regista ritarda spesso l’ingresso degli altri personaggi nelle inquadrature, o mettendoli fuori fuoco o facendo sentire prima la voce e poi allargando la MDP per coinvolgerli solo in un secondo momento, come se stessero penetrando in un flusso di sentimenti a loro precluso.
In tal senso, l’escalation emotiva che persegue Close avviene per stadi, passaggi lenti, pause e silenzi, è un percorso che richiede cura e tempo, come i fiori di cui si occupa la famiglia di Léo, una ricerca che sembra quasi ritmata dalle tappe delle quattro stagioni che racchiudono in una struttura ad anello, finita e conchiusa – close, da cui il titolo del film -, armonica e naturale la storia dei due adolescenti. È un rapporto che nasce, cresce, fiorisce e, ad un certo punto, muore: la similitudine natural – processuale è fin troppo semplice da allegare all’evoluzione della storia dei due personaggi.
La semplicità della trama viene però trattata da un uso maturo e consapevole del mezzo filmico, come se il virtuosismo registico di Xavier Dolan – si pensi solo al cambio di formati in Mommy (2014) – avesse incontrato la sentimentalità tellurica dei film dei fratelli Dardenne. Dhont fa un uso accorto di fuochi e fuori fuochi, di carrelli e steadycam ma soprattutto riesce a rendere palpabile il trapasso luttuoso dei personaggi grazie ad una fotografia corposa e basilare: luminosa tanto da schiarire i piani medi e i primi piani nella prima parte del film, contrastata da lame d’ombra nella seconda parte dopo il terribile lutto che devono vivere i protagonisti.
È questo un arsenale al servizio delle intense performance degli attori, tra i quali spiccano di due ragazzi protagonisti, e che non scadono mai in una estromissione sbragata delle emozioni che vengono costruite per suggestioni rimanendo sottopelle, solcando le reazioni del pubblico in modo discreto, invisibile, privandolo delle difese per potersi proteggere dallo scioglimento finale, immancabilmente commovente.
Close non capitalizza le interpretazioni degli attori o i virtuosismi registici per adescare l’applauso a fine film, ma si prefigge lo scopo umanissimo di scavare nella temperatura emotiva dei personaggi – e dunque del pubblico – con lo scopo di riportare al centro del discorso filmico la pura interezza della bellezza dei rapporti umani. E ci riesce con successo, regalando una mise en scene dei sentimenti così intensa come da anni non si vedeva al cinema.
Candidato ai Golden Globe, Close si è visto sottrarre il premio da un altro bellissimo film straniero – Argentina, 1985, S. Mitre, 2022 -; la sua corsa procede ora verso l’ambitissima statuetta al miglior film straniero alla prossima Notte degli Oscar. Forse che la storia umana, agrodolce e sincera di Léo e Rémi raccontataci da Lukas Dhont possa commuovere anche l’Academy of Motion Picture?