Il ritratto di oggi è dedicato a Ada Negri (1870 – 1945)
È stata una poetessa e scrittrice italiana e anche la prima (e unica) donna a essere ammessa all’Accademia d’Italia nel 1940. Di se stessa scriveva:
«Io non ho nome. – Io son la rozza figlia dell’umida stamberga; Plebe triste e dannata è la mia famiglia, Ma un’indomita fiamma in me s’alberga.»
E difatti era figlia di un vetturino, quindi della parola Umiltà conosceva il suo più vasto significato. Il padre morì alcolizzato che lei era ancora in fasce, così madre e figlia si trasferirono nella portineria di Casa Barni a Lodi, dove la nonna faceva la portinaia.
L’infanzia passò relativamente serena, ogni tanto ad Ada veniva concesso di giocare nel vasto prato con i figli dei padroni. Eppure quei momenti spensierati saranno descritti, molto più avanti, come tristi e “mortificanti” perché a volte alla bimba veniva richiesto di interrompere i giochi per correre a svolgere il suo compito: aprire il cancello alle carrozze degli ospiti dei padroni di casa e altre piccole incombenze.
Quando la nonna fu costretta a lasciare il lavoro per sopraggiunti limiti di età, tutti si trasferirono dal pian terreno al piccolo alloggio nel sottotetto del palazzo. Da lassù Ada poteva vedere il passaggio di lussuose carrozze e ricchi borghesi vestiti alla moda. Ne uscì fuori una ragazza melanconica, ma non di quella melanconia “romantica” dedita al piagnisteo o a recriminazioni sulla società brutta e cattiva che l’aveva relegata in soffitta, ma (al contrario) a di quella attivissima ed esasperata dalla voglia di capire e studiare le situazioni complesse della società, dei suoi affanni fino ad arrivare alla voglia rabbiosa di affermare se stessi contro il mondo. Ma per farsi valere e liberarsi dalla povertà occorreva studiare e farsi una cultura. Bei tempi; oggi basta entrare in politica o diventare mafioso.
Ci pensò la mamma che, impiegata in un lanificio, non lesinò sacrifici pur di far prendere alla sua “Dinin” un diploma. E così fu.
Il 18 luglio 1887 Ada Negri conseguì la patente di maestra elementare che le consentiva di insegnare prima a Codogno e poi a Motta Visconti dove passò il periodo più felice della sua vita. Non ci credete? Leggete le pagine di Cacciatora e di Stella Mattutina, chiaramente autobiografiche.
Poi accadde qualcosa. A Motta Visconti, Ada insegnava in una classe “border line” i ragazzi erano “sporchi e selvaggi”, ma lei si innamorò della loro vitalità e spontaneità, così scrisse al lume di candela, (stile Scrivano Fiorentino), una raccolta di poesie e, su suggerimento delle amiche, le inviò al Fanfulla, un quotidiano di Lodi. La Dea Bendata, che ogni tanto ci vede, nei panni di una giornalista del Corriere della Sera, lesse le poesie e rimase colpita dalla scrittura irruente e dolorosa della giovane maestra tanto da dedicarle un articolo.
Ada ha poco più di venti anni e diventa un caso letterario.
La raccolta di poesie venne pubblicata col titolo di Fatalità (1892) e fece scalpore. Le sue parole erano così appassionate che riuscirono a infiammare anche il cuore di Giosuè Carducci. Lo stile doloroso e allo stesso tempo impetuoso cavalcava perfettamente i sentimenti dell’epoca. Tale fu l’entusiasmo generale e l’accoglienza del libro, che la poetessa venne nominata docente alla scuola Gaetana Agnesi di Milano (ah, la meritocrazia di una volta).
Nel capoluogo lombardo Ada cambiò decisamente vita. Arrivò anche l’amore e il fidanzamento con un giornalista di nome Ettore Patrizi che la introdusse nei migliori salotti italiani dove era possibile incontrare intellettuali e politici del calibro di Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Benito Mussolini (sì, proprio lui).
A un certo punto però, Ettore Patrizi ruppe il fidanzamento e si trasferì in America; Ada ci rimase molto male e se ne uscì con una raccolta dal titolo Tempeste, (1895) dedicata al sentimento d’amore appena sfumato. L’antologia ottenne un grande successo anche se Luigi Pirandello la criticò per i toni esagerati e un filo retorici. Vabbè… uomini.
Comunque, dalla portineria di Lodi, Ada Negri ne ha fatta di strada. Dopo aver descritto la pietosa situazione dei poveri, sposò un ricco industriale, tale Giovanni Garlanda di Biella da cui ebbe due figlie: Bianca che sarà ispiratrice di molte poesie e Vittoria, che morì un mese dopo la nascita. E anche questo stralcio di vita privata si trasformò nella raccolta di poesie dal titolo: Maternità (1904). Nel frattempo, la nostra, diventò sempre più attiva in campo sociale e, con Ersilia Majno, fondò l’asilo Mariuccia (rigorosamente laico) dove venivano accolte ragazze madri e senza marito.
La sua stella è lanciatissima, dal 1903 al 1911 tenne una rubrica per il Corriere della Sera e scrisse di attualità, argomento a lei congeniale.
E se la carriera va bene, non così il matrimonio. Si separò nel 1913 e, contestualmente, prese casa a Zurigo; qui pubblicò Esilio, opera chiaramente autobiografica. La nostra tornò a Milano giusto in tempo per lo scoppio della guerra e per aderire al Comitato Nazionale Femminile. Tutta la sua precedente passione civile si riversò sul fronte delle donne dove il suo occhio critico, impietoso e onesto riuscì a descrivere “umili scorci di vita femminile” raccontando quei destini così grigi e privi di prospettive che ritroviamo in: Le Solitarie, ovvero 17 racconti che scandagliano la vita delle donne dalla loro nascita alla morte. In esse ritroviamo tutto un mondo declinato al femminile in cui la libertà è impossibile e con essa anche l’autodeterminazione. In definitiva, per le donne, l’unica identificazione possibile è quella familiare; essere cioè, la figlia di, la madre di, la moglie di, la suocera di, la nonna di…
Lo stile è asciutto quasi dimesso, non c’è enfasi né retorica e per questo, colpisce dritto al cuore. Nonostante il successo, Ada non rinnegò mai le sue origini cui anzi attingeva quando scrive della misera vita dei contadini e dei “servitori”, lo sfruttamento degli operai, l’umiliazione della condizione femminile, la precarietà dell’esistenza dei poveri. Infatti, per le sue produzioni di stampo sociale, si guadagnò l’appellativo di poetessa del Quarto Stato. Stessi temi ritroviamo in Finestre Alte, Sorelle e Le strade. In Stella Mattutina (1921), ritornano ancora una volta i ricordi di quando per tutti era ancora Dinin.
Una vita, quella di Ada, prolifica e ricca di successi. Venne candidata al Premio Nobel per la letteratura nel 1926 e pure nel 1927 e, nel 1931 fu insignita del Premio Mussolini (sempre quello) per la carriera. In qualità di intellettuale del regime, fu la prima donna membro dell’Accademia d’Italia.
Gli anni della Seconda guerra mondiale sono anche gli ultimi anni della sua vita. Ritrova la fede e scrive Erba sul sagrato (1939). Muore a Milano l’11 gennaio dell’anno 1945, tre mesi prima di Benito Mussolini.