Babylon è un anti – capolavoro che tratteggia la faccia più oscura di La La Land (2016, sempre del geniale Damien Chazelle). È un film che esplora, spesso scatologicamente, i meandri più esecrabili del mondo del cinema
Tre ore e dieci minuti, più o meno lo stesso minutaggio di Avatar – La via dell’acqua (J. Cameron, 2022) ma senza la sbornia digitale, che terminano con uno dei finali più concettuali che mai si siano visti al cinema negli ultimi tempi. “È un’esperienza!” sento dire da una ragazza non appena compaiono i titoli di coda sullo schermo. Ed è così scontato da essere veritiero: Babylon, l’ultimo film del regista statunitense Damien Chazelle (Whiplash, 2014, La La Land, 2016, First Man – Il primo uomo, 2018) è un’autentica immersione dei sensi nel mondo fatto di carne, sangue e celluloide del cinema che vede il passaggio dal muto al sonoro. Ci sono tutti i personaggi del caso: la starlet pazzoide che vuole sfondare ad ogni costo (Margot Robbie), il divo del muto che si trova in difficoltà dopo il passaggio al sonoro (Brad Pitt), l’artista duro e puro che cede di fronte ai soprusi del mondo del cinema (Jovan Adepo), l’immigrato che parte da zero, riesce a diventare produttore ma poi si ritrova al punto di partenza (Diego Calva).
Un po’ The Artist (M. Hazanavicius, 2011), un po’ C’era una volta a…Hollywood (Q. Tarantino, 2019), Babylon ha però una sagacia tutta sua nel rappresentare con furia spesso scatologica (si pensi soltanto alla scena dell’elefante con cui si apre il film) la Hollywood descritta da Kenneth Anger nel suo bestseller Hollywood Babilonia (1959), anche se, nel film, Chazelle preferisce enfatizzare la componente babelica piuttosto che quella hollywoodiana, come se ci stesse dicendo che il lavoro del cinema rimane un lavoro sporco, che deve affondare le mani nelle feci e nelle secrezioni più disgustose (e nel film se ne vedono a fiotti) per far sopravvivere l’aura patinata che circonda la “Fabbrica dei Sogni”.
È questa una visione reiterata e confermata sia dal bestiario di animali che attraversa tutto il film (elefanti, caimani, serpenti, topi, insetti, che nel Medioevo erano simbolo e personificazione del Male) sia dalla forza purulenta di vomiti, secrezioni, feci, orge, vagiti, orgasmi che caratterizzano le scene più febbrili del film, fino a spingersi nei meandri più oscuri di una Hollywood che sembra reggersi sopra un Inferno dantesco: nella parte finale Manny (Diego Calva) discenderà in un mondo sotterraneo popolato da nani, uomini deformi, freaks dei generi più vari, abitanti di un mondo dove perversione ed eccessi sono portati alle estreme conseguenze.
È come se Chazelle stesse componendo l’altra faccia di La La Land (2016), la metà più oscura, quella sottaciuta; nel film del 2016 i due protagonisti si spingevano a Los Angeles per fare carriera nella Fabbirca dei Sogni, venendo rapiti dalla sua magia fino ad essere traghettati nei mondi patinati e plasticosi del musical su cui si reggeva l’apparato diegetico del film con citazioni a Frad Astair e Ginger Rogers. Qui invece si addentra nel voltastomaco losangelino, nelle perversioni divistiche (si pensi anche al riferimento alla figura di Roscoe “Fatty” Arbuckle), nel non – detto dei meccanismi eccentrici ed eccedenti di Hollywood nella stagione del suo massimo splendore, fiancheggiando tutte le categorie estetiche “dal divismo al freakismo, dal gender al kitsch” (Roy Menarini).
Sotto ad ognuno di questi vizi, al di là di ciascuna depravazione rimane però monolitica la trascendentalità dell’arte cinematografica. Lo dice Elinor St. John (Jean Smart), la giornalista di gossip che si confronta con il divo Jack Conrad (Brad Pitt) ormai alla fine della sua carriera: gli uomini sono nulla di fronte alla potenza del cinema, un’energia che scavalca spazi e tempi, un’arte che rende immortali imprimendo per sempre i volti e i gesti degli attori su celluloide. Il cinema forse è un lavoro sporco, forse nasce da eccessi e perversità, ma rimane una magia capace di coinvolgere milioni di uomini e donne di qualsiasi età, sesso, razza o classe aumentandone il capitale emotivo, donandogli un grammo di felicità, rivendicandoli da una vita triste e mortale attraverso la messa a punto di quella “formula perfetta” della quale ha parlato David Thomson nel suo omonimo libro. Il cinema ti fa vivere “in eterno tra gli angeli e i fantasmi” (è sempre Elinor che pronuncia questa battuta).
Babylon è un anti – capolavoro perché spinge in direzione ostinata e contraria su quelle categorie estetiche e diegetiche con le quali siamo soliti identificare un capolavoro; è un’opera – mondo, nell’accezione che ne ha data Franco Moretti, un manufatto monstrum che ad oggi non siamo in grado di etichettare.
È eccessivo, febbrile, tellurico, esplosivo e senza freni, è smisurato, carnevalesco, folle e inibito, non sarà mai un “classico” perché conserva gelosamente i suoi difetti ed ha una forza in grado di sollecitare erezioni intellettuali ad ogni sequenza, è un concentrato di cinema direttamente somministrato in endovena, una prefigurazione di un cinema libero, (im)possibile, fatto di carne e sangue, “uno di quei film azzardati e pieni di passione che oggi nessuno osa più fare” (Fabio Ferzetti, L’Espresso).
Quindi, per dare ragione alla ragazza sconosciuta nella poltrona dietro la mia, Babylon “è un’esperienza”. E questa è l’unica ragione per andare a vederlo.