Con un’asciuttezza quasi fordiana, Martin McDonagh firma una sceneggiatura e una regia che compongono una fenomenologia dell’irrazionalità dei conflitti umani
Non ci sono più banshees nell’immaginaria isola di Insherin, e se ci sono ormai non urlano più in previsione della morte di qualcuno. Si limitano ad osservare, divertite. È un po’ la situazione dello spettatore mentre segue le vicende che allontanano Pàdraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), amici di lunga data ma divisi dall’atteggiamento improvvisamente ostile del secondo. “Non mi stai più a genio” gli dice, dopo aver disertato più volte il loro appuntamento alle 14.00 in quello che sembra l’unico pub della zona. E mentre sulla terraferma imperversa la guerra civile – siamo nel 1923, in Irlanda – i due (ex) amici scadono, progressivamente, in un jeau de massacre sempre più assurdo che avrà esiti se non macabri sicuramente grotteschi.
È la trama al limite dell’irrazionale firmata dal regista e sceneggiatore premio Oscar Martin McDonagh (In Bruges, 2008, Tre Manifesti a Ebbing, Mussouri, 2017), irlandese d’origine, che stavolta combina la sua cruda asciuttezza, memore della lezione dei film di John Ford – anch’egli irlandese e che conta nella sua filmografia un film dedicato alle sue origini, Un uomo Tranquillo (1952) con John Wayne – con un registro che scade volontariamente nell’assurdo, come se si stesse assistendo ad una pièce di Samuel Beckett – anch’egli, ca va can dire, irlandese -.
Lo script è ridotto all’osso, condensato in battute brillanti che vanno sempre dritte al punto e vengono pronunciate da una serie di personaggi che ricostruiscono un microcosmo umano tipico (e tòpico): il matto del villaggio (uno splendido Barry Keoghan), il burbero solitario (Brendan Gleeson, da Oscar), la donna forte e con forti aspirazioni (Kerry Condon) sorella di un uomo semplice, gentile ma un po’ ingenuo (Colin Farrell, anch’egli da Oscar). La fantomatica Insherin è il luogo dell’azione, un’isola dove non sembra mai cambiare nulla, dove tutto è sempre fermo e immutabile, emblema di un’Irlanda brulla, selvaggia, archetipica, lontana dal mondo, immortalata da panoramiche che paiono renderla simile a dei cretti di Alberto Burri.
È la location adatta per raccontare la solitudine di personaggi che, quasi volontariamente, decidono di isolarsi, di rompere rapporti d’affetto e d’amicizia (lo stesso Colm, da un giorno all’altro, decreta di trovare Pàdraic noioso e di non voler avere più nulla a che fare con lui), vivendo pienamente lo spazio della propria solitudine.
Anche la macchina da presa di McDonagh sembra voler suggerire questa situazione: se non si perde in panoramiche o campi lunghi, il regista si apposta sempre fuori dalle finestre. Finestre che dividono (si pensi al momento in cui Pàdraic siede all’aperto e Colm all’interno del pub, seduti nella stessa posizione ma divisi della finestra), finestre che allontanano, che dividono, che emarginano, tanto i personaggi fra di loro quanto questi dallo spettatore, soprattutto nei casi in cui le soggettive lo inseriscono nella prospettiva in cui gli sembra di stare acquattato fuori dalle case e di guardarci dentro attraverso gli infissi.
È una sintassi precisa, oculata, semplice nella sua pretesa teorica: i conflitti umani nascono spesso per ragioni assurde, per litigi o contrasti dei quali non si ricordano nemmeno i motivi (si pensi al dialogo in cui Pàdraic afferma di non ricordare perché sia scoppiata la guerra civile) oppure dei quali non si sa più quale fazione abbia ragione o torto (si riguardi la scena in cui il poliziotto di Insherin annuncia a Colm di dover andare sulla terraferma per assistere ad una esecuzione, senza sapere se questo fatto vada a favore dell’una o dell’altra parte in causa nella guerra civile).
McDonagh smonta e rimonta il suo microcosmo di tipi umani per descrivere con lucidità una fenomenologia dell’irrazionalità con cui scoppiano o si verificano grandi fratture tra essere umani, siano essi di portata storica o più intimistica, presupponendo che “la guerra sia radicata prima di tutto nell’anima degli uomini” (Gianni Canova, WeLoveCinema.it).
E di fronte a tutto questo affannarsi di uomini che rifiutano altri uomini per motivi futili o nulli, gli “spiriti dell’isola” guardano divertiti, come la vecchia con pipa e mantello nero, figura sinistra e inquietante che preannuncia sovente i lutti o le tragedie della piccola isola di Insherin.
Ma il finale, così enigmatico e aperto, con Colm che rimane in campo lunghissimo mentre guarda verso la terraferma sembra quasi suggerirci che anch’egli sia uno “spirito dell’isola”, oppure che, come uomo, appartiene e apparterrà sempre a quel microcosmo di uomini senza la forza (o la volontà) di volercisi allontanare. Che sia stato uno spirito in vena di scherzi o un uomo annoiato preso da disperazione come vuole farci credere fin dall’inizio?
Non lo sapremo mai, McDonagh non offre risposte precise e preferisce chiudere in modo ambiguo, dopo un dialogo grottesco (come la maggior parte dei dialoghi della sceneggiatura) e dopo aver siglato uno dei film più belli che abbiano aperto il 2023.
Nominato a 9 categorie ai prossimi premi Oscar, Gli spiriti dell’isola è un film magnificente, sapientemente interpretato e ben orchestrato, una boccata d’aria per la crisi creativa che sta attraversando Hollywood da un decennio a questa parte. Come anche in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, McDonagh torna a raccontare gli uomini e i loro “modi d’operare” (come piaceva ripetere allo storico del teatro Fabrizio Cruciani) stavolta, rispetto al precedente film, con più sense of humor e un pizzico di gore in più, dimostrandosi ancora una volta uno degli autori più interessanti del panorama cinematografico mondiale.