In sala l’ultimo film del regista indiano naturalizzato statunitense che si guarda come un film di Alfred Hitchcock ma si legge come un trattato di filosofia
C’è una coppia omosessuale, Eric (Jonathan Groff) ed Andrew (Ben Aldrige), che ha adottato una bambina asiatica, Wen (Kristen Cui), che decide di prendersi una vacanza e di affittare una casa in un bosco “alla fine del mondo” (per citare il titolo omonimo del romanzo da cui è tratto il film). Improvvisamente sopraggiungono quattro sconosciuti. Non si sa chi siano, non si conoscono fra di loro e non conoscono la coppia ma hanno strane armi in mano e un fare minaccioso. Irrompono in casa e li mettono in guardia: qualcuno di loro deve uccidere un membro della famiglia con il suo consenso o si scatenerà l’Apocalisse. I personaggi vengono così posti di fronte ad una scelta, etica ma anche sadica, che deve basarsi su una professione di fede: è vero quanto dicono i quattro sconosciuti? Sono quattro invasati religiosi e omofobi o i Cavalieri dell’Apocalisse? Dicono la verità o solo falsità cospirazioniste?
Ogni volta che la coppia si rifiuterà di adempiere al sacrificio, una parte dell’umanità sarà giudicata scatenando una delle piaghe dell’Apocalisse. Quello che mostra la televisione, le immagini trasmesse dalle breaking news che mostrano la decimazione di innocenti in diretta sono vere? Oppure sono solo coincidenze sfruttate dai quattro invasati per giocare perversamente con la pressione emotiva della famiglia vittima dei loro soprusi?
L’ultimo film di M. Night Shyalaman (The Sixth Sense, 1999, Split, 2016, Glass, 2019) abita le domande, e non dà risposte, ma si carica di senso e simbologia.
Il divario principale che muove il trhilling del film, e che conduce al dubbio i due protagonisti, è se credere o meno alle immagini. Oggi che viviamo “la soppressione primaria della funzione sociale della soggettività” (Walter Benjamin), l’immagine diventa ambigua, la relazione fra realtà e immagine diventa fragile, perché la verità che l’immagine può raccontare è da sempre limitata. È il paradosso delle società avanzate, che “consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma più false” (Roland Barthes, La camera chiara).
È, a mio avviso, la condizione che vivono i due personaggi: c’è una vulnerabilità, una debolezza, una fragilità nel credere. Credere diventa un azzardo, un doppio carpiato nel vuoto, talvolta un pericolo. Questa situazione rende più ardua la scelta, tema fondamentale in tutta la filmografia del regista almeno da Signs e The Sixth Sense in poi, e più arduo si fa il rapporto con gli altri, le relazioni interpersonali, la fiducia nel prossimo.
Il pubblico di oggi è “affamato di senso” ha detto il regista in una recente intervista alla redazione di FilmTv, per questo tutto l’impianto teorico del film – ben più complesso di come ho cercato sinteticamente di delinearlo – si basa su un preciso registro linguistico che adotta soluzioni visive volutamente sorpassate: lenti anni 90, persino anni 50 per i flashback che interrompono sovente il dramma principale, che costringono a dei contenimenti (per esempio nella mobilità della MDP, che per altro si muove per la maggior parte del film tra le quattro pareti della casa nel bosco) ma consentono al regista di avere un controllo totale su ciò che viene mostrato e come viene mostrato.
M. Night Shyalaman “gestisce il sapere, manipola chi guarda, si mette in difficoltà: vuole che non crediamo, prima, per poi provare a farci credere di nuovo” (Giulio Sangiorgio, FilmTV), come nella scena iniziale dove i due uomini, aggrediti, tentano di chiamare il 911 con un telefono fisso. Lo spettatore prova quasi fastidio di fronte a questa scena, chiedendosi perché nel 2023 ci siano ancora thriller che mettono in scena persone senza smartphone o cellulare. Solo dopo si scopre che in quella casa, in quel luogo, non c’è campo. Shyalaman “ce lo dice solo dopo averci indotto un pensiero che mette in crisi la credibilità del film, solo dopo aver crepato la possibilità delle sue immagini di essere verosimile” (è sempre Sangiorgio che parla).
Bussano alla Porta, con un inaspettato Dave Boutista ad interpretare uno dei quattro sconosciuti, è dunque erede della tradizione hitchcockiana nel senso più spirituale del termine (anche se il collega sudcoreano Park Chan – wook rimane il vero e ultimo discendente di Alfred Hitchcock), un film stratificato tre intricate simbologie bibliche, che si lascia guardare come La Finestra sul Cortile (1954) o un episodio di Ai confini della realtà (1959 – 1964) ma si legge come un saggio o un trattato di Slavoj Zizek (è ancora il bravissimo Giulio Sangiorgio che propone il paragone).
Mettetevi in crisi guardando Bussano alla porta e rassegnatevi all’idea che, come ha detto il regista stesso, “non esiste una risposta giusta, ma devi comunque trovarne una”.