Una magnetica Cate Blanchett veste i panni di Lydia Tár, fantomatica direttrice d’orchestra, su cui Todd Filed cuce fragilità, genialità e l’irresistibile fascino del potere
Lydia Tár (Cate Blanchett) è molte cose: artista, genio della musica contemporanea, autrice, compositrice, direttore d’orchestra, musicologa, lesbica (ha una figlia e una compagna), tiene lezioni e scrive libri, suona il piano e si è formata con il più grande direttore d’orchestra di tutti i tempi: Leonard Bernstein.
Todd Field (In the bedroom, 2001, Little Children, 2006) costruisce il biopic di un personaggio che non esiste, che non è mai esistito ma che è tanto plausibile quanto immanente. Cate Blanchet, che con questo ruolo si è aggiudicata la Coppa Volpi alla 79esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, dà vita al gioco di ombre di Field componendo la parabola di una divinità che, piano piano, viene scaraventata giù dall’Olimpo dell’arte e da una condizione gerarchica che ella stessa aveva creato, riducendo tutti (collaboratori, assistenti, amici e compagni) alla sua mercé.
È una tensione autodistruttiva che anima il personaggio di Blanchett, il quale segue l’escalation perfettamente calibrata dalla sceneggiatura firmata dallo stesso regista tutto intento ad inseguire questa idea fassbinderiana di una “paura che mangia l’anima”.
Il film inizia quando Tár è al massimo della sua carriera ed è tutto quello che avrebbe sempre voluto essere. Ma basta un piccolo ingranaggio inceppato per dare avvio ad un effetto domino che spazzerà via in poco tempo tutto ciò che la protagonista ha costruito.
In questo senso, tempo del racconto e tempo della storia coincidono: la prima parte del film è molto più dilatata, in senso ritmico, rispetto alla seconda che, in un tempo molto più contenuto, mostra i lunghi effetti dannosi e deleteri dei suoi errori. Se la prima parte prediligeva le parti dialogate e i bellissimi monologhi della Blanchett, la seconda è affidata tutta ai silenzi, alle pause, alle scansioni di un montaggio che si fa più frenetico e trasversale. Cut dopo cut, location dopo location, seguiamo la direttrice d’orchestra più importante del mondo peregrinare in fuga da sé stessa e dai suoi disastri iniziando una nuova vita da zero, dopo aver perso tutto e, in particolare, la credibilità.
Accusata di aver scambiato posizioni professionali per favori sessuali, in poco tempo Lydia Tár viene fagocitata dal vortice mediatico che fa a pezzi la sua immagine.
Ed infatti, nella seconda parte del film dove il racconto è tutto affidato alle immagini e ad una fotografia che si inscurisce sempre di più, Tár sembra quasi scomparire preda di una furia iconoclasta, fagocitata dal buio della fotografia di Florian Hoffmeiste e delle location sempre più ostili, in termini di decor, rispetto alla sua figura così raffinata.
E’ come se La Favorita (Y. Lanthimos, 2018) avesse incontrato l’ipocrisia del mondo artistico d’oggi e la lunga durata degli effetti causati dal movimento #metoo – che pecca talvolta di grossolanità nelle accuse -, confezionando un racconto che è esattamente agli antipodi di Blonde (A. Dominik, 2022), ma del quale conserva – in termini linguistici – la casualità inquietante nata dall’accostamento di momenti perturbanti, – come anche in Spencer (P. Larraìn, 2021) – e che vanno a costruire un film fatto di cortocircuiti di senso, di shock visivi spesso inspiegabili, che appaiono da un momento all’altro senza un apparente motivo, traghettando il registro drammatico nell’horror o nel thrilling. In questo, Tár si potrebbe definire quasi kubrickianamente un “flm – cervello” – alla Eyes wide shut, per intenderci, ultimo e imperfetto capolavoro di Stanley Kubrick al quale collaborò anche lo stesso Field -.
Tár non ha l’abrasività della Marilyn/Ana de Armas del film di Andrew Dominik e nemmeno il suo senso brutale dell’iconoclastia (tant’è che il film di Field è candidato agli Oscar 2023), tuttavia riesce in modo cogente a sondare i meccanismi gerarchici e i rapporti di potere del mondo dell’arte impalcandoli e sublimandoli in un unico personaggio, affondando con chirurgica crudeltà gli interstizi più riprovevoli dell’animo umano.
Blanchett offre in tal senso un’ottima prova attoriale, dando corpo ad un personaggio che sembra progressivamente mostrificarsi, gongolante del e nel proprio potere: si pensi alla scena in cui gioca con le bambole assieme alla figlia che vorrebbe dare una matita come bacchetta da direttore d’orchestra a ciascun giocattolo e le replica “non possono dirigere tutti, non è una democrazia”. Oppure si guardi ancora il monologo sul tempo: all’inizio del film, Tár afferma che il tempo, nella direzione di un’orchestra, è fondamentale ed è il direttore che ha il potere di espanderlo, rallentarlo, fermarlo, in sostanza di manipolarlo. È esattamente quello che fa Tár con la vita di chi le sta attorno, decidendo dove, quando e come entrare o uscire dalla sua esistenza e dal microcosmo della musica che pensa di potere governare come un monarca assoluto. Blanchett dà corpo in questo film alla sublimazione del potere, aprendo la regia di Field al tema che lega assieme donne e ruoli gerarchici, ruoli spesso raggiunti col doppio della fatica rispetto ai colleghi maschi, offrendocene una lucida analisi.
La situazione che crea la stretta di ferro della direttrice d’orchestra viene sciolta solo quando qualcuno trova la forza di denunciare, facendo trapelare il teatrino di giochi di palazzo costruito dalla protagonista.
Per questi motivi le donne che ruotano attorno alla storia e alla performance impeccabile di Blanchett non sono personaggi secondari ma comprimari: la violinista e compagna di vita Sharon (Nina Hoss), l’assistente Francesca (Noèmie Merlant), la violoncellista promettente Olga (Sophie Kauer), tre tipi umani che alla fine del racconto dimostrano quanto fossero loro ad avere in pugno Tár quasi quanto questa era in grado di tenerle assoggettate.
Con Tár Todd Field torna alla regia dopo quasi un lustro e tanti progetti rifiutati dalle case di produzione, con un film crudele che tanto ricorda quelli di Rainer Werner Fassbinder (non a caso l’ambientazione è berlinese), dal quale sembra recuperare non tanto la sintassi quanto lo spirito di un racconto gonfiato da rapporti e relazioni perverse e distruttive e nella volontà di portare alla luce – o rigettare ancora di più nell’oscurità – le bellezze che nascono dal rapporto stretto tra arte e perversioni, lasciando lo spettatore con una grande domanda irrisolta: com’è possibile che da tante contraddizioni possano nascere tali bellezze, siano film, dipinti o una sinfonia di Mahler?