Il ritratto della settimana è dedicato a Flannery O’Connor (1925-1964).
Una delle più grandi narratrici americane spesso accostata a figure quali Hemingway, Carver o Steinbeck, aveva una personalità schietta e un carattere d’acciaio derivante da un’incrollabile fede; la sua stessa scrittura era diretta e senza orpelli. Come una doccia fredda.
Nei suoi racconti spicca la continua ricerca di Dio come chiave per interpretare, o quanto capire, gli uomini. Lo stile è ironico e condito con un po’ di dark humor, quindi non pensiate nemmeno lontanamente a Lodi al Signore o canti gregoriani, la nostra, infatti, era cresciuta nel clima alquanto rurale della Georgia e, per di più, durante gli anni della segregazione razziale.
Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica. È un fatto, tanto vale dirlo a chiare lettere. Però sono una cattolica singolarmente dotata di coscienza moderna, della specie che Jung definisce astorica, solitaria e colpevole.
Lo scenario che fa da sfondo ai suoi racconti sono i paesaggi e gli ambienti dove è sempre vissuta e che conosce molto bene: le campagne, le colline, i boschi, i paesi e le città della Georgia. Il vecchio Sud che lei osserva con occhio impietoso indagando gli animi di chi lo vive. Ne emerge un microcosmo assolutamente verosimile popolato da personaggi rudi, talvolta bizzarri, gretti e meschini che cercano di mascherare la loro mediocrità finendo per apparire ancora più materialisti ed egoisti che mai. E di fronte alle difficoltà, prima reagiscono dando sfogo alla collera salvo poi soccombere alla realtà dei fatti che loro stessi hanno contribuito a creare.
Ma andiamo con ordine.
Flannery nasce il 25 marzo 1925 a Sannah, in Georgia, da genitori di origine irlandese. I primi anni della sua vita trascorrono serenamente fino a quando, nel 1937, viene diagnosticata al padre Edward una malattia ereditaria che colpisce il sistema immunitario: il lupus erythematosus.
Motivo più che sufficiente perché la famiglia si trasferisca a Milledgeville, in una tenuta di proprietà della madre, Regina. Vivendo in una fattoria, Flannery, rimane affascinata dagli animali, soprattutto dai pavoni che amerà per tutta la vita. Ma per la serie: se non son strani non ci piacciono, lei si incaponisce ad addestrare un pollo (l’animale, non un ragazzo). Lo vestiva, ci parlava e gli insegna pure a camminare all’indietro. A sei anni, la piccola Flannery diventa una piccola celebrità.
Crescendo, mise da parte i pennuti e si dedicò ai libri. A scuola inizia a cimentarsi con la scrittura e alcuni suoi racconti vengono anche pubblicati sul giornale scolastico. Purtroppo la serenità della sua adolescenza viene interrotta dalla morte del padre.
Poco dopo si iscrive al Georgia State College for Women e nel 1945 vince una borsa di studio della prestigiosa State University of Iowa, seguendo i corsi di letteratura e arte e frequentando il laboratorio di scrittura sotto la guida di Paul Engle.
La scrittura l’accompagna in tutto il suo percorso, scrive a sua madre e tiene un diario di preghiere. In esso racconta la sua nuova vita, ci sono stralci di dialoghi con Dio, c’è la meditazione e ancora, la paura di non diventare una brava scrittrice e al contempo il desiderio profondo di percorrere quella strada.
«…Se devo faticare per il mio lavoro di scrittrice, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente.»
Di Flannery colpiscono la semplicità, l’arguzia e la determinazione. Più avanti, quando sarà malata e famosa, dirà:
“Ho visto un milione di persone durante la settimana e ora sono felice di essere tornata dai miei polli che non sanno che scrivo.”
Quando si diploma, presenta la tesi The Geranium a Collection of short stories.
Nel frattempo la madre aveva ereditato un’altra fattoria, ed è qui che la nostra inizia la stesura del suo primo romanzo: Wise Blood – in italiano La Saggezza del Sangue. Ma questa famiglia non eredita solo tenute e animali; purtroppo a Flannery viene diagnosticata la stessa malattia del padre. Siamo nel 1950 e medici e conoscenti si accordano per nasconderle la verità facendo passare i sintomi per quelli dell’artrite reumatoide.
Lei, che aveva impostato la sua vita secondo un ferreo calendario, fa spallucce e seguita a scrivere lo stesso numero di ore al giorno e guai a saltare. E poi è alle battute finali del suo romanzo che viene pubblicato nel 1952 e con successo, tanto da diventare nel 1979, un film diretto da John Huston. Venne accolto dal pubblico con molto clamore e non pochi dibattiti.
La trama racconta dell’animo in subbuglio di un ex soldato che torna a casa alla ricerca della proprio fede. Finirà per diventare un predicatore della “Chiesa della Verità senza Cristo” e a trasformarsi, suo malgrado, in uno dei tanti fenomeni da baraccone che negli anni ’50 (ma anche oggi, eh) aspettano i futuri “clienti” – possibilmente disposti a sganciare qualche frusciante – fuori dai cinema, dai ristoranti e da locali vari. Flannery, in realtà, punta il dito nella società americana sorda a ogni vera fede, e lo fa beffandosi dell’ipocrita religiosità dietro cui si celano gli animi più perversi. All’inizio del romanzo lei stessa scrive:
“Il libro fu scritto di gusto e, se possibile, bisognerebbe leggerlo nello stesso umore. E’ un romanzo comico che tratta di un cristiano suo malgrado e, in quanto tale, serissimo, perché tutti i romanzi comici d’un qualche valore debbono trattare questioni di vita e di morte.“
Figuriamoci lo sconcerto dei perbenissimi americani di allora…
Intanto i sintomi del Lupus diventano evidenti anche a lei che combatte la malattia con dosi massicce di cortisone. La cura trasforma letteralmente il suo corpo e la costringe a camminare con le stampelle. Ma lei è irriducibile. Avanza con la stessa forza di un panzer che invece di benzina, va a galloni di fede che, per inciso, di questi tempi costa anche molto meno.
In un certo senso la malattia è un luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore.
È in questo momento che acquista la prima coppia di pavoni che col tempo arriveranno a quaranta.
Il 1955 è un anno importante: pubblica la raccolta A Good Man Is Hard to Find e avvia una significativa corrispondenza, con una misteriosa ammiratrice di Atalanta, citata sempre con la lettera “A.” Scrive recensioni, tiene conferenze presso le università, il suo lavoro diventa sempre più popolare e i suoi racconti sono oggetto di adattamenti televisivi.
I personaggi di cui narra, alla fine devono sempre confrontarsi con la propria coscienza sperando che questa li porta alla salvezza o alla redenzione. E questo, ha nulla a che vedere con un lieto fine.
Nel 1960 scrive il suo secondo e ultimo romanzo tradotto in Italia come: Il cielo è dei violenti. Ovvero lo scontro tra scienza e ragione contro religione e fanatismo. Francis è un adolescente vissuto con gli insegnamenti talebani di un zio ultracattolico, alla morte del parente è convinto di dovere “battezzare” il figlio di un uomo in quanto, a detta dello zio, nato deficiente per grazia divina. Francis soffre i tormenti del dubbio perché fra libertà e devozione non c’è via di scampo e la lotta intestina avviene prima di tutto dentro di noi; difatti lui sente crescere dentro di sé una voce interiore che lo esorta a liberarsi della cecità in cui lo zio lo ha precipitato.
In una frase:
L’inferno si trova sicuramente nell’inconscio dove però si trova anche il desiderio di Dio
A mio parere l’animus di questa scrittrice è ben reso nella raccolta di saggi e lettere dal titolo Sola a presidiare la fortezza, in cui troviamo una missiva che Flannery scrisse alla misteriosa A, nella quale racconta di una conversazione avvenuta a casa di amici. A un certo punto la discussione si spostò sull’Eucarestia: uno dei presenti disse di considerarla un‘immagine simbolica. La O’Connor, cattolica ortodossa che usa la sua professione di fede per interrogare la natura umana, rispose serafica:
“Beh, se è un simbolo, che vada all’inferno allora”.
Chiaro no?
Segnata nella malattia, si reca a Lourdes con la madre ma lungi da lei farsi il bagno nell’acqua miracolosa; era lì solo per osservare e annotare il comportamento umano in un luogo di fede. Al ritorno inizia un terzo romanzo che rimase incompiuto. Malgrado le cure la malattia avanza e con essa, altri mali. Flannery O’Connor muore a 39 anni.
Escono postumi: la raccolta di racconti Everything That Rises Must Converge (1965); la raccolta di saggi Mistery and Manners (1969); The Habit of Being (1979).