Il regista coreano torna al mélo e coniuga azione, sentimenti, pulsione e morte in un film che è una grande lezione di stile.
Sebbene molti si ritengano “hitchcockiani”, sono pochi in realtà i registi che possono definirsi veramente tali. Forse M. Night Shyalaman assume, talvolta, qualche topos, alcune modalità di catalizzazione dell’attenzione del pubblico che è propria della lezione del grande regista inglese, ma se si dovesse indicare invece un erede diretto di Alfred Hitchcock questi non potrà che coincidere col nome e l’opera del regista coreano Park Chan-wook.
Esploso con Mr. Vendetta (2002) e Old Boy (2003), Park Chan-wook ha dato prova, negli anni, di un eclettismo raffinato e di uno stile personale capaci di indirizzarlo verso film audaci come Thirst (2009) e Mademoiselle (2016).
Attraversa come un filo rosso gran parte della produzione del regista la sua attenzione rivolta al mélo, spesso mescolata con gli stilemi del thriller, dell’horror o del film erotico.
Con Decision to Leave, al cinema dal 2 febbraio scorso, Park Chan-wook torna al thriller e al melodramma puro, ma stavolta spingendosi persino oltre e reinventando Vertigo – La donna che visse due volte (A. Hitchcock, 1958).
L’ispettore Hae Joon (Park Hae-il) avvia un’indagine sulla misteriosa morte di un uomo, apparentemente caduto dalla cima di una montagna mentre faceva roccia. I sospetti ricadono sulla vedova, per nulla affranta, Seo Rae (Tang Wei, già protagonista di Lussuria di Ang Lee), donna affascinante di nazionalità cinese che comprende poco il coreano della polizia. Eppure Seo Rae sembra nascondere qualcosa: la donna si ammanta di fascino e mistero, un profilo che riesce persino ad infatuare l’integerrimo e rispettabilissimo ispettore Joon che si incamminerà, insieme alla donna, su una strada che punta dritta all’autodistruzione. Di lui o di lei.
La sceneggiatura di ferro del film viene firmata a quattro mani dal regista insieme alla bravissima Jeong Seo-kyeong, un portento delle sottotrame che anche in questo film non mancano di innervare la narrazione costruendo possibilità, eventi plausibili, vicoli ciechi, complice un montaggio che rende disfunzionale il tempo del racconto ora con prolessi ora con analessi che danno corpo al racconto. Durante lo svolgersi della trama sembra quasi che più l’ispettore cerchi di avvicinarsi alla donna più in realtà se ne allontani, nonostante l’accumulo di indizi e interrogatori. Il regista approfondisce così il tema della natura umana, dell’animo e della sensibilità di uomini e donne ambigui, le cui certezze possono vacillare da un momento all’altro a causa di dubbi e sospetti.
La lezione di Alfred Hitchcock non si riscontra solo a livello diegetico – la bipartizione della trama, i sentimenti confusi dei protagonisti – ma anche a livello tematico – l’erotismo che non scade mai in scene softcore, la femme fatale, il dubbio, il voyeurismo – sostenuti da un sistema di messinscena che regge il gioco di trame e temi grazie ai primi piani, agli zoom che sembrano quasi carrelli ottici, alla predilezione delle location in interni (si pensi a Rope – Nodo alla gola (1948), girato da Hitchcock interamente in un appartamento).
La strada imboccata da Decision to leave è “originale e modernissima” (F. Ferzetti, L’espresso), un’operazione generata non da una cinefilia spicciola ma da una sapiente metabolizzazione dei modelli che portano lo sregolato regista di Old Boy a mettersi di nuovo in discussione, esprimendosi con un film tanto torbido quanto candido che ad una prima visione può far venire in mente In the mood for Love (2000) di Wong Kar-Wai e che risulta, come accennato, da una perfetta ed equilibrata mescolanza di thriller, azione (soprattutto nel finale) e melodramma.
Già vincitore a Cannes 75 del Prix de la mise en scène, il film di Park Chan-wook è tra i grandi esclusi agli Oscar 2023 (vale lo stesso per il roboante Babylon di Damien Chazelle con solo tre candidature e per il Blonde iconoclasta di Andrew Dominik) ma è palese che si tratti di una delle proposte autoriali più valenti di quest’anno.
E mentre guardiamo quanto Hollywood continui a crogiolarsi nella sua decennale crisi creativa, spetta al cinema coreano sorprendere gli spettatori con proposte uniche e irripetibili.