Faticò ad accettarlo. Le forme le saltavano fuori scomposte sul foglio, si addensavano sulla carta ruvida delle tavole per i progetti. Erano forme astratte che, una volta sistemate nel disegno, sussurravano depresse: “e lasciaci aleggiare nella tua testa senza dipingerci per favore… Pietà.” Non aveva estro.
Provò i ritratti, del resto era la materia principale. Il figurativo non arrivava neanche alla fine della prima bozza. L’occhio del volto le scappava da una parte, l’altro troppo in alto si arroccava in un punto del foglio che… Troppo tardi, quel viso era già uno scempio! I ritratti, a differenza delle forme astratte, non commentavano: alla bocca non ci arrivava mai.
I professori la guardavano con una certa apprensione: con il corpo che aveva, avrebbe dovuto avere almeno talento, o la sua vita sarebbe stata una scalata senza soste, una salita ripida. Ma tutti i tentativi di apprendere proporzioni e uso dei colori vennero vanificati dall’accettazione. Faticò sì, ma lo accettò: aveva il corpo di chi doveva avere talento, ma era senza talento. Le città musicali, con le scuole musico-statali, erano troppo lontane. L’unica città che riusciva a raggiungere dal suo paesino era una città grafica e lei con quella stazza non ce la faceva a camminare altri venti minuti per prendere il treno e tentare, dopo quaranta minuti di viaggio, e altri venti di cammino, la via delle corde, o delle bacchette o degli strumenti a fiato. Non tentò un’altra arte, un’altra scuola. Si mosse fra quelle aule, fra l’acquerello e l’acrilico, fra quei corridoi e in quel piazzale, fra quelle cattedre e le chine e i disegni, e tutto le sputava addosso dipinti su dipinti, su sculture: un fiorire di roba che la inglobò per cinque anni, durante le cinque ore di liceo. Ritornò ogni giorno su per i tornanti, con il bus, e poi su per le stradine del suo paese, camminando enorme e senza fiato.
Non faticò ad accettare la maturità, non più di tanto! Afelia guardò i suoi compagni del grafico-statale saltellare – chi poteva saltellare – con tutti i bozzetti esibiti a mani alzate. O meglio: chi saltellava non aveva bozzetti, chi non saltellava esibiva i bozzetti. Chi saltellava era magro e non si era mai applicato alle forme e ai colori per davvero (c’era chi lo aveva fatto comunque, ma mai con quella passione, quell’estro), chi non saltellava era enorme, e quindi disegnava da dio! Questo le avevano detto i nonni, ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Lo stereotipo dei magri spensierati e scemi e dei grassi artisti e geni lo aveva sempre classificato sotto l’etichetta di inutile diceria… Non faticò quel giorno, che odorava di primavera ma era estate, a dirsi che se il mondo credeva a quelle due categorie, forse il mondo aveva ragione. Il mondo come i suoi nonni era più vecchio di lei, il mondo come i suoi nonni era più duro di lei, il mondo come i suoi nonni avrebbe avuto ragione per l’ennesima volta. La scena era colorata, fra i bozzetti, i vestiti, il liceo stesso, i palazzi intorno al liceo, tutto: si consolò alla vista di quei colori che si amalgamavano al cielo e agli odori.
Faticò a stare dietro ai discorsi di Tivo, l’amico magro del quintetto. Su per le strade del paesello sproloquiò tutto il tempo mentre cercavano dove mangiare. I suoi bellissimi occhi fucsia si spostavano convulsamente saltellando e con le parole che gli ballavano in bocca.
“Andiamo di qua! Si mangia che è uno spettacolo! Comunque… non solo i pittori, non solo i musici, i cantastorie, che son diversi dai musici, non solo i poeti che son diversi dagli autori, che si dividono in sceneggiatori e romanzieri, anche gli artigiani devono avere un talento e il talento, si sa, lo insegna la scienza, lo insegna il ministero!, ha bisogno di carne per essere contenuto. Muldio, mi sa che è pieno qui, andiamo dall’altra parte, fanno un risotto alla banana e tartufo che è la fine del mondo!”
Chissà se cercava di dimostrare un po’ di intelligenza a Muldio o se lo voleva sfinire!
Muldio lo seguiva rallentato su per le scale che si spingevano le une sulle altre a forza di scalini, su per i portici piccoli, su per altre scale, mentre quello saltellava, e gli altri, in carovana seguivano ancora più rallentati Muldio stesso. Afelia gli camminò dietro tutto il tempo, non ce n’era uno libero di ristoranti: tutti festeggiavano la maturità, tutti erano arrivati prima, forse avevano più magri nella comitiva. Strano, però! Perché in quella contea i magri erano la minoranza. Camminò giù per quelle benedette scale e su, poi, per quei maledetti scorci, tutti dipinti, tutti di casette e stradette le une sopra le altre ad addensarsi, piene di graffiti, piene di immagini, piene di colori, un’abbondanza! Quel piccolo paese sembrava avere tante case le une sopra le altre, che forse, se non fosse stato piazzato in cima a una montagna, ma avesse avuto una pianura da occupare, sarebbe esploso in strade lunghe e dritte per decine di chilometri. Lì i musici cantavano, grassi; i cantastorie raccontavano, grassi; i pittori ridipingevano i dipinti già dipinti sui muri e tutto pareva congeniato ad arte. Certo, anche i magri nella coreografia facevano qualcosa, facevano il resto: dai camerieri, ai cuochi, ai saltimbanchi (quelli più talentuosi, s’intende), ai ragionieri, ai commercialisti.
Sì, fu faticoso trovare il ristorante, ma la tovaglia era così colorata, intarsiata, piena di labirintici motivi che esplodevano, disegnati da chissà quale mano talentuosa – e, sicuramente, pachidermica – che Afelia si consolò a guardarla.
Da lì la giornata si fece faticosa. Muldio sparì nel nulla a fare l’università. “Via, vado!”, a malapena disse “ciao”, dopo quel pranzo. Lui doveva diventare l’inventore di chissà quale corrente artistica: era un genio, faceva disegni che fondavano le loro basi fin nella fredda matematica. Era inventore di paradossi visivi, scale che si rincorrevano, contorcevano, finivano in loro stesse, prendeva spunto dal paesino, diceva spesso. Tivo ne parlava sempre con grande sussiego. Muldio sorrideva accondiscendente, ma quell’accondiscendenza sparì con una velocità inaspettata. A stento disse ciao, aveva fretta di creare forse.
Afelia finì il suo minestrone poco dopo quel “ciao”. Mangiava con grande finezza ogni cosa salutare, senza mai eccedere, le sue maniere fini erano diventate parte della sua firma stilistica: aveva faticato a crearla e aveva capito che non era nei disegni che doveva metterla ma nella vita. Tivo aveva insistito per chiederle di mangiare qualcosa di più, non poteva ingozzarsi di verza anche stavolta! Disse proprio “ingozzarsi”, lei che sbucciava le mele con la forchetta! Faticò a non tirargli un manrovescio, ma nessuno avrebbe sospettato di quella fatica. Composta gli ricordò che lei ormai era stata abituata a mangiare per arginare l’obesità e certo cibo lo aveva imparato a concepire prima come nocivo e poi come insapore, ormai non sentiva più sapori se non di quelle cose che considerava lecite nella sua dieta. Lui poteva mangiare il tacchino cotto nel brodo di pesca, anche i cuochi a loro modo erano artisti. Chi poteva apprezzarli, doveva, disse in soldoni. Tivo non capì quello sforzo, lui era capitato nella parte dell’umanità dove si mangiava di tutto, senza ingrassare di colpo.
Tivo, poverino, ci provava a essere carino in fondo, ma proprio non gli riusciva! Si congedò ancora prima che il gruppo salisse per la piazzetta della conca, dopo pranzo, là alla fontana in pietra serena. Tivo salutò a stento, anche lui. Tutti e tre ebbero l’impressione che avesse voluto qualcosa di più: essere accettato, essere stimato, da Muldio soprattutto, che se ne era andato via così… E allora anche lui salutava a stento. Due saluti particolarmente scarni, fatti in quella coloratissima piazza piena di immagini e festa.
Afelia faticò per arrivare fin su alla piazzetta, con la conca, la fontana, in pietra serena. Vandra si fermò addirittura a metà: gli enormi rotoli di carne le penzolavano scherzosi da sotto la maglietta e c’era poco da scherzare. Sudata in volto, si appoggiò al muro. Si sentiva male. Salutò a stento anche lei. Chi glielo faceva fare di camminare per quel paesino?! Vandra se ne ritornò verso il centro dopo aver detto: “scusatemi, fuggo anche io e non so se ci rivedremo. Io parto domani, ragazzi… Cavoli, sono morta… Io parto domani… Scusatemi ma qui non mi ci sono mai trovata.” Anche lei università, grafica? Disegno moderno? Graffito? Forse un ripiego? Anche lei grassa, certo, ma mica se la cavava per davvero! Non era mica Muldio! E però, intanto, i suoi volti erano dei volti e le sue macchie dicevano qualcosa. Sarebbe finita a dipingere muri di condomini, non di piccole case, ma niente di eclatante. Non sarebbe mai arrivata oltre un undici piani, ai dodici ci arrivi solo se sei veramente bravo.
Faticarono ma lei e Iossa ci riuscirono. Forse perché erano tutti e due negati nel disegno? Forse dovevano spingersi fin lassù per quello. Le gambe si erano sfregate lungo le cosce, i passi erano stati pesantissimi, pesati li avevano maledetti su quegli ultimi scalini, sfuggendo ai disegni delle pareti che si stringevano in quella stradina che sembrava chiudersi, prima di confluire nella piazza. La piazza della conca, l’unica non disegnata del paese! Ogni paese e ogni città grafica, per legge ne vogliono una, così come i quartieri silenti delle città musicali e i quartieri muti delle città parlanti, peccato non ci fossero città della scultura vere e proprie… Chissà come avrebbero fatto lì a eliminare in una piazza ogni cosa che occupava spazio, avrebbero potuto esserci panchine? Di questo parlarono mentre il sole estivo sembrava volerli punzecchiare. Le magliette erano mézze e si sentivano contenti. Lei e quell’energumeno occhialuto di Iossa: si erano guadagnati ogni scalino a suon di prese per il culo e sorrisi, ma sì, ci erano arrivati.
La fase della fatica non finì. Abbiamo fatto l’artistico, dove andiamo? Che facciamo? Una metropoli! Parole, musica o grafica? Sì, ma non andiamo da Muldio, lui ci parla sempre male di… E non andiamo neanche da Tivo, finirebbe per voler uscire sempre con noi e poi rovinarci la serata con i suoi discorsi traballanti… Andiamo da Vandra? Ma se è andata a sperdersi in un paesotto di montagna come quello da cui siamo fuggiti noi dopo sei mesi di grafica! Sì! Lasciarono il paesino e sì!, si trovarono un posto della serie… Ma davvero andiamo nella capitale?! E che facciamo? Nella capitale della grafica?!?!?! Noi?!?!?! Ma certo! Abbiamo fatto l’artistico, cinque anni fra i colori, ci sarà qualche lavoretto come… vendiamo colori! Apriamo un negozietto! I belli posano, i grassi dipingono, va bene! Ma lo sai che tasso di obesità c’è nella capitale?! Settanta percento! Sai quanti artisti?! Sai quanti pittori?! Se non puoi posare, devi creare! Un mercato infinito! E infinita invece fu la fatica solo arrivarci nella capitale. Ma era così colorata, dai grattacieli ai tombini, dalle colonne alle luci delle insegne, dai pali dei semafori ai tronchi degli alberi, che Afelia non sentì nulla, nessuna fatica. Uno spirito nuovo l’aveva rimessa al mondo, era lo spirito grafico della capitale. Lei, e lo capì solo di fronte a tutta quella magnificenza di grattacieli, lei amava davvero tanto i colori. Sì, era stata la scelta giusta!
Aprirono quel benedetto negozietto. Piccolo! Le marche degli acrilici sogghignavano in una scala cromatica precisa lungo lo scaffale. Ecco, qualcosa di non scriteriato! Le tempere, matite, erano una profusione di forme più tozze – i tubetti – e di stecchetti lisci, rotondi, lunghi – le chine a volte, le matite spesso – disposti in parata sugli espositori. Il rosso fiziano, preparato con la terra di Fizia, dove le scavatrici mangiano il terreno giorno e notte, voracissime, senza placarsi un istante, è una terra buona quella, per farci la terracotta, per misturarla alle leghe, ottenerci strane ghise, e poi, ah, che colore che ci salta fuori! Vuole un bel tramonto, ma non sa miscelare il colore?! Ci sparga sopra il Fiziano, questo uniforma tutto, bilancia ogni cosa, si casca sempre in piedi! Com’era diventato bravo a vendere Iossa, ogni colore, uno per uno, pensò Afelia, mentre faticava a sistemare le casse, passo lento, dopo passo lento, impilando i nuovi colori ordinati. Stava sistemando il nuovo colore: giallo muvandro. Lì era un lavoro di pistilli: li raccoglievano a mano, uno per uno, le aziende raccontavano spesso della dedizione degli operai, tutti magrissimi! Che a raccogliere avevano ormai desensibilizzato i polpastrelli, tutti tagliati dalle piante. Le piante di Muvandro sono micidiali, ma lì, non puoi fermarti: c’è da mangiarlo il mondo, ingrassare la vacca industria che va sfamata di pistilli, costosissimi, è il colore più costoso! Ma che colore, poi senta l’odore! Si sentono i pistilli, no?! E quindi sì, non si fermano mai e nei volantini di presentazione del colore le aziende molto spesso, to’, guardi! Raccontano della fierezza dei loro operai e di come questo mondo ha bisogno di loro e che non si fermano mai, mai, mai… Stava disegnando una vacca grassa, gialla, sulla saracinesca del negozio di sua zia, lei, eh?! Bello, il prototipo, guardi che linee! Sì, questo è un giallo costosissimo, e questo disegno è enorme, ma si fidi… Meglio di questo, che c’è?! Nulla!
Com’era diventato bravo a vendere Iossa, ogni colore, uno per uno, pensò Afelia mentre faticava… Faticava. Lei faticava, mentre Iossa godeva a parlare, intortava, si divertiva, gli veniva naturale, stava tutto il tempo seduto sulla sedia mentre Afelia armeggiava per sistemare il locale e faticava e lui che su quella sedia sfogava il suo talento. Avrebbe dovuto essere poeta o romanziere, quello era il suo! Lei invece? Lei faticava a tenere conto della rendicontazione, mai ce la faceva, faticava a tenere conto dei tubetti venduti, ma ce la faceva, faticava fisicamente, con quel suo corpo enorme, mentre vendeva a tutti quegli enormi artisti, presunti tali, veri, tutti rotondi, tutti fatali, nei loro corpi opulenti, mentre vendeva a tutti loro tutti i colori del mondo, faticava, ma ce la faceva. Lei si consolava, del resto: quei tubetti, i colori esplodevano, fiorivano nel suo negozio e i suoi occhi si sfamavano di quelle ordinate sfumature, tutte precise, una cancelleria ben congeniata.
Faticò, l’ultima volta in cui faticò per davvero. Faticò a parlare a Iossa. Ci mise due mesi a dirgli che non capiva com’era che faticassero ad arrivare a fine mese quando vendevano così tanto e così bene. C’erano dei buchi, buchi nel negozio che non si spiegava, buchi nelle economie della casa che avevano, buchi in tutto. Litigarono, per la prima volta, dopo sette anni passati insieme a costruire cose facili, per una vita facile, perché per loro non era facile per niente, soprattutto muoversi non era facile e allora non si muovevano da quel che conoscevano: la loro vita e il loro negozio. E però, alla fine, in quel negozio, lei si muoveva, si muoveva sul serio. Lei andava su e giù e grassa lo era sempre e lui? Che cazzo faceva?! Saltò tutto per aria: vita, sogni, progetti. Lui si era innamorato, lo ammise. Spendeva soldi per lei, spendeva tubetti. Era un’artista, era magra! Lui spendeva, comprava, rivendeva. Per quello i conti non tornavano, lei era capitata nel negozio e… Quella cassa di giallo muvandro che non hai trovato, che hai cercato per due settimane?! L’ho data a lei. L’ho data a lei! Io questa vita con te non la voglio più! Io volevo essere magro, mi sei andata bene, ma adesso voglio altro! Lei mi ama per come le coloro le parole, come le impacchetto i discorsi! Vi siete baciati? Gli chiese. No che non si erano baciati, ma lui rispose di sì. Lei capì la verità: intortava tutti, ma lei ormai aveva un bel campionario di espressioni che, sapeva, erano menzogne su quel suo volto enorme. La riconobbe e capì che lui era perso di lei, che lei non era persa di lui, lei voleva i loro colori. A lei non importò, preferì perderlo.
Afelia si scontrò con un muro di facce grasse come la sua, ma non altrettanto simpatiche. Vendere era insidioso. Iossa non amava i colori, ma amava quantomeno le parole. Lei amava i colori, davvero, li adorava guardare, le riempivano le guance, le riempivano la pelle, se li sentiva addosso. A stare lì in mezzo, aveva maturato una strana, sottocutanea felicità. Ma non amava le parole. Dovette imparare le frasette delle pubblicità, la storia dei colori, la storia dei lavoratori che, quasi sempre magri, i colori li facevano. Impacchettate tutte quelle storie le doveva riproporre, ma la gente non comprava come prima. Spesso, con i loro corpi, quasi sempre enormi, tignosi rinfocolavano le critiche che avevano sentito: lei non conosceva bene la materia. La sfumatura non era quasi mai esatta, per il colore proposto; il colore proposto e la sfumatura sarebbero andati bene, ma non per il lavoro; lavoro, sfumatura e colore erano perfetti ma! La superficie! La superficie: serranda, tela, mattone, cartonato, misto, cartongesso, acciaio… Disegnare, dipingere il mondo non è mica una cosa da ridere, chiosavano ridendo di lei a volte, sconvolti da quella, minima a volte, mancanza di precisione nel consiglio d’acquisto.
Una volta comparve Vandra all’ingresso del negozietto e le due si misero a ridere. Ma come! Dopo dieci anni?! Qui?! E perché? Aveva interrotto qualcosa, una specie di lezione di un mostro del colore che la stava tormentando, con il suo corpo enorme a fare ombra a tutto l’ingresso e agli altri clienti che lo ascoltavano ammirati: il succo era che non ne sapeva niente di serrande e del rapporto fra il grigio della serranda, l’arancione e la marca giusta dell’arancione nel figurativo con taglio impressionista. Vandra si scusò e la aspettò fino a chiusura fuori. Ritornarono a casa, faticarono a raggiungere il secondo piano dove stava lei, arroccata lassù. Ma te le ricordi le scale del paese? Qui mi ci sono trasferita dopo che ci siamo lasciati. Sì, i posti al pianoterra sono sempre i più costosi, mi sono accontentata del secondo piano, sono in affitto. Arrivarono sudate.
Sempre con i brodi, sempre a mangiare piano, per non far rumore con i denti e svegliare quel metabolismo cinico, ma tanto erano ancora grasse tutte e due. Vandra mangiava di gusto le pere e si godeva le mele dopo il primo e il secondo, ormai aveva davvero accettato quella sorte rotonda lungo i lineamenti del viso. Afelia la vedeva sorridente. Vandra disse di aver trovato il suo centro. Era diventata una musica! Lei sapeva suonare, i pennelli non erano il suo, sarebbe diventata professoressa di liceo: chitarra classica ed elettrica in galleria autostradale, era esperta su come abbinare i suoni delle auto per far sì che il guidatore gustasse la nota giusta al momento del transito. Sì, quella era la sua strada! Era passata perché da lì, ci passava spesso, doveva chiudere cose con il ministero della grafica, esami da annullare. Ma da lei era passata perché aveva saputo da Tivo che Iossa era solo. Iossa era tornato al paese lassù, sconvolto per la delusione. Afelia provò rimorso, sapeva sarebbe andata così. Ma in fondo, a chi importa di Iossa, commentò Vandra. Afelia rimase stupita, sapeva che Vandra se ne fregava degli altri, ma Iossa non meritava tutto quel disinteresse. Rise come a stare al gioco, ma le seppe fatica.
Di nuovo vendeva al negozio e i clienti calavano. Quasi faticava di più a stare a galla di quando Iossa le rubava i colori! Ma si riempiva gli occhi ogni sera con i tubetti, i colori, i pennelli, le chine. Aveva un bell’odore tutto quello. Aveva un gran bell’odore. Non le sapeva così grande fatica reggere a tutto quello. Uno degli odori preferiti da quelle sue enormi narici era un azzurrino Buver, una marca che degli azzurri aveva fatto il suo cavallo di battaglia. Il fiore di rosmarino le entrava dentro, riempiendole la carne di felicità, dal naso alla punta dei piedi. Lo vedeva il rosmarino che raccoglievano gli operai, lo vedeva su quel muro a secco, si sentiva bene. Mentre il negozio era chiuso e fuori la strada di città, con l’asfalto colorato, coloratissima, esplodeva nella sera primaverile, due colpetti sul vetro la svegliarono. Tivo?!
Tivo era stato spronato da Vandra. Non se la sentiva di venire, ma non perché non le volesse bene, è che a sentire tutte quelle cose che le aveva raccontato Iossa… Afelia si incuriosì. Tivo cercò di farle un commento sulla zuppa, di nuovo. Un maldestro tentativo di cambiare discorso? Sì, ammise Tivo di fronte agli occhi di Afelia che quasi provavano tenerezza. Tivo voleva parlarle, voleva dirgliene dietro, sparò, come suo solito, irruento e senza preavviso. Era stata lei a spingere Iossa nelle braccia di un’altra, trascurandolo, trascurando l’enorme corpo di Iossa, che lui lo sentiva che lei non lo voleva più! E allora lui si è innamorato di una magra per colpa sua e adesso era in depressione per colpa sua! Afelia capì che Vandra gli aveva consigliato in buona fede di presentarsi lì, ma che Tivo aveva colto l’occasione che aspettava da tempo: far sentire in colpa Afelia per far felice Iossa. Era Iossa il suo nuovo Muldio. Iossa era il suo nuovo amico, intelligente e grasso, dal quale avrebbe potuto farsi amare. Afelia provò pietà per Tivo e per Iossa, un po’ anche per Vandra, talmente sulle sue da non capire che aveva dato un là che Tivo aspettava da tempo, Vandra se ne fregava un po’ troppo. Ma ora era con Tivo, non con Vandra. Afelia gli sorrise, gli chiese sinceramente perché ci tenesse tanto all’opinione che Iossa, il suo nuovo idolo, aveva di lui. Tivo non seppe cosa rispondere per un po’, ma lei era interessata e anche se la domanda lo metteva in difficoltà, in fondo, chi se ne frega?! Lei voleva saperlo e urtare un po’ i suoi sentimenti, quel piccolo dolore, non la disturbava. Tivo ci pensò sul serio, prima di andarsene. Sulla porta disse che in Iossa vedeva un amore che aveva visto solo in Muldio e in Vandra. Vandra lo evitava ormai, ma Iossa lo accettava. Iossa amava qualcosa, disse Tivo, amava parlare disse Afelia. Tivo sgranò gli occhi dicendo che sì, era proprio vero. Tivo non amava niente, capì Afelia, guardandolo. Avvertì un gelo che la infastidì e quegli occhi fucsia che aveva amato segretamente durante l’adolescenza, le sembrarono neri. Neri? Erano neri, disse a sé stessa chiudendo la porta. Dopo Vandra e Tivo, mancava solo lui, ma lui, ne era certa, non sarebbe mai arrivato.
Faticò a crederci ma un giorno, l’ennesimo cliente della giornata, fu invece proprio Muldio. Le due pance si sfiorarono, gli ombelichi si guardarono, le loro rotondità si salutavano così. Afelia con calore, sorridendo: era la venditrice. Muldio con freddezza: era il cliente. Non c’era nessuno quel giorno e Muldio passava di lì. Muldio non affermò di essere sorpreso di averla incontrata, sapeva che lei lavorava nella capitale. Afelia disse che però era contenta che lui fosse venuto, oltre che sorpresa, insomma, ormai quasi arrivavano alla trentina, erano anni che non si vedevano, lui in qualche modo si era ricordato di lei! Lui disse che non era sorpreso di vederla perché era possibile, che era fattibile che prima o poi l’avrebbe incontrata. Spiegò che stava nella capitale da anni e lei questo lo scoprì in quel momento. Sì, lui stava lì da anni e solo in quel momento era passato di lì. Afelia provò un freddo che le arrostì la pelle, ma stavolta faticò a non darlo a vedere. Muldio le chiese di alcuni colori resistenti all’acqua. Lei spiegò della collezione Furna. Spettacolare, concluse con un bel sorriso, dopo aver detto che i colori avevano delle misture a olio particolarmente idrofobe, che mantenevano tutte le sfumature e duravano senza restauro una trentina d’anni su ogni superficie, anche sottoposti alle peggiori intemperie! Non commentò, chiese di colori adatti all’aria calda. Quella sì che era una richiesta strana. Lei rovistò nell’inventario che aveva in testa, si avvicinò a uno degli scaffali interni del negozio. Colori impastati con una particolare mistura, una specie di polverina di metallo con punto di fusione altissimo, che però serviva per dipingere gli scafi delle navi, anche quello resistente all’acqua poi, ovviamente! Aveva tutta la gamma. Entrarono nello specifico e capì che lui voleva qualcosa di diverso. Domanda dopo domanda, passarono, come quel giorno nelle stradine di quel paesello, ma invece che per strade, per marche, colori, sfumature, marche di nuovo, discussioni. Sentì freddo, mentre dopo averla sfiancata, comprò un tubetto, uno!, preso a caso e disse che sarebbe dovuto ritornare al paese. Al paese, chiese lei? Non stai qui da anni? Colto in flagrante morì dentro, lei glielo lesse in faccia.
“No, non sto qui. Passo ogni giorno con quel pallone gonfiato di Iossa, non ho retto alla vita universitaria. Sapevo disegnare meglio di tutti, ma ho rischiato tre esaurimenti! Dopo anni, finalmente mi ha parlato di te, è geloso di me. Non voleva che io e te ci vedessimo! Chissà cosa teme! Be’, ho approfondito e ho saputo da Tivo, finalmente l’ho fatto parlare, era riluttante, ma… Insomma, gli ho detto che Iossa aveva pronunciato il tuo nome… Mi ha detto tutto della tua ridente attività! Anche Vandra, che non vedo mai, ne parla bene! Che bei colori, che bei colori, che bei colori un cazzo!”
Non veniva per conto di Iossa. Lei aveva un angolino, lui non più. Lei disse che in realtà era quello che viveva con ogni cliente, ogni cliente le riservava lo stesso trattamento: la odiavano, in fondo. A lui chiese perché.
“Non ami quello che fai e si vede. Vendi per vendere, ma non ami vendere. Io amo il colore, molto più di te.”
A lavoro faticò a sorridere nei giorni successivi. Un giorno le parve di vedere un po’ di meno quei colori. Non era vero, era un’impressione e lo sapeva, ma ci credette, decise di crederci. Voleva smettere di amare quei colori.
“Mi guardi dall’alto verso il basso, caro cliente, perché pensi di amare i colori più di me, io che con gli occhi mi ingozzo di colori ogni giorno?! Sì?! Va bene, allora meglio smettere di vederli!”
Doveva campare. Per campare doveva smettere di amare, faceva meno male. Per smettere di amare, doveva non vedere. Si sforzò di far appassire dentro di sé i colori. Per aiutarsi, cercò di risvegliare in sé un altro desiderio. Da qualche parte doveva compensare… Si concentrò sui dolci che comprò, si concentrò sulle torte, sui brasati, sui canditi, sul pane, morbido, croccante. Tornò a masticare, di gusto. Si concentrò e intanto si concentrò per uccidere i colori, quei colori che vedeva sempre di meno o così le pareva, quei colori che erano stesi sulle macchine, sugli alberi, sui fiori, che cadevano dentro i suoi occhi, si concentrò perché quel freddo, che aveva sentito, avesse la forza di renderla daltonica alla vita. Sentì il profumo del tubetto, l’azzurrino Buver, e immaginò un rosmarino, con i fiori che spuntavano come dita affusolate a toccare l’aria, solleticare la primavera. Fu l’ultima volta che provò ad annusarlo, immaginando quel rosmarino morire in un mare di bianco e grigio, su un muretto rupestre. Lo immaginò con tale forza che quando aprì gli occhi quasi i colori non li vedeva più. Nelle ore dopo vendette: le servivano le marche per vendere e le pubblicità annesse spiegavano come usarle, non doveva vederli quei colori che vendeva e di fatti le sembrava così… In quel negozio le sembrò per davvero che tutti i colori fossero appassiti. Le appassirono i colori sugli occhi e vendette serena.
Arrivata alle scale, vide i muri del condominio disegnati e dipinti, miliardi di piccoli esseri in un graffito infinito. Era tutto un bianco e nero, nitido, freddo. Toccò il muro, provò paura e felicità. Era davvero tutto in bianco e nero?! Si schiantò a dormire, stanchissima da quel lavoro di decolorazione. Chiuse gli occhi sperando che i colori fossero davvero spariti dalla sua vita.
Si svegliò e il ventilatore con le pale rosse attaccato al soffitto era di un grigio scuro. L’azzurrino del soffitto pareva grigio chiaro. La caffettiera gialla era bianca. Saltò sul letto con uno scatto da felino! Si sentiva leggera, saltellò per tutta la casa, urlando, correndo. Si guardò allo specchio, per vedere se i suoi occhi erano nocciola: sì, erano un grigio chiaro! E mentre si fissava negli occhi, diceva a sé stessa di essere felice, perché aveva perso nella sua vita ciò che davvero amava. C’era riuscita! Prima di correre a ingozzarsi di tutti i dolci che si era comprata per festeggiare quel lento sbiadire notò la figura intera, in quell’enorme specchio. Il suo corpo, magro, snello, filiforme, era un insieme di chiazze chiare e ombre scure ben congeniate. Aveva quasi trent’anni, era magra e incolore. E sorridere di fronte a quello specchio fu la cosa meno faticosa che le fosse mai capitata di fare in tutta la sua vita.