Il nuovo film di Darren Aronofsky è prima di tutto un’ottima e studiata operazione di casting. Cattura l’interpretazione intima, sincera e disperata di Brendan Fraser
The Whale segna un doppio ritorno: quello del regista Darren Aronofsky che, dopo aver scandalizzato il 74esimo Festival del Cinema di Venezia con Madre! (2017), non ha diretto altri lungometraggi almeno fino ad oggi, e quello del divo anni ’90 Brendan Fraser decaduto in seguito ad una serie di orribili problemi personali che l’hanno portato a ritirarsi dal cinema e dalle cineprese.
The Whale è la storia di Charlie (Brenadan Fraser), un pachidermico insegnante di scrittura creativa all’università che si è seppellito sotto chili di grasso affogando i suoi dispiaceri e i suoi lutti nel cibo spazzatura. Charlie è un enorme uomo obeso impossibilitato a muoversi senza l’aiuto di stampelle o carrozzine o senza l’apporto della amica infermiera Liz (Hong Chao). Solo e solitario dopo la morte del compagno Alan e un disastroso matrimonio con Mary (Samantha Morton), Charlie cercherà di riallacciare i rapporti con la figlia Ellie (Sadie Sink), sapendo ormai di essere alla fine dei suoi giorni.
L’ultimo film di Aronofsky è un ottimo esempio di come si possa fare buon cinema con pochi mezzi e scelte centrate, a partire dal testo teatrale di Samuel D. Hunter scritto nel 2012 e dal quale è tratto il soggetto del film.
La struttura teatrale permane sia nell’individuazione della location – il film è girato tutto in interno, nell’appartamento di Charlie – sia nel linguaggio registico – abbondano i primi piani e i piani medi e una semplice applicazione mai virtuosistica del campo – controcampo -.
Notevole l’impiego del formato 4:3 che comprime ulteriormente le inquadrature che da una parte accentuano il senso di claustrofobia che promana dall’ambiente in cui si muovono i personaggi, dall’altro evidenziano il carattere elefantiaco del personaggio di Charlie come se persino l’inquadratura non fosse in grado di comprendere l’intera sua mole.
Non è strano che Aronofsky sia stato attratto dal testo di Hunter. La drammaturgia contiene infatti il tema fondamentale del cinema di Aronofsky: il corpo che si ribella al proprio padrone. La sua filmografia si può infatti leggere in sordina come un lungo decalogo dedicato a vari casi in cui è centrale questo rapporto ambiguo col corpo. Corpi spesso portati agli eccessi o al di là delle loro possibilità come quello vessato dai colpi di The wrestler (2008) o quello ossessionato dalla perfezione de Il cigno nero (2010) o ancora il corpo sformato dalla gravidanza di Madre! (2017); Aronofsky mette in scena personaggi che sono concentrati di sangue, carne, cartilagine, vasi sanguigni e nervi e dà rilevanza a corpi che lottano con i propri padroni, che si ribellano alla loro volontà di volerli sfiancare o sfinire, spesso al centro di storie intime ma universali, dove emergono aspetti della natura umana (e anche The Whale è un viaggio all’interno dell’animo umano, ma mai viaggio fu più crudo e spietato) come ad esempio il rapporto padre – figlio – si pensi di nuovo a The Wrestler -, ancora un aspetto della filmografia di Aronofsky che in The Whale trova nuova declinazione.
Ma prima di tutto questo, il film è soprattutto un’attenta e precisa operazione di casting. Nessuno degli attori è fuori posto nel muoversi attorno alla figura immensa di Brendan Fraser che qui offre l’interpretazione più intima, sincera e disperata della sua carriera. Fraser dà voce e corpo ad un uomo – balena (sono frequenti i rimandi a Moby Dick di Herman Melville), buono e gentile, un “mostro”, come lo era Mickey Rourke o come lo diventerà Natalie Portman in Il Cigno Nero, che nonostante tutto crede ancora nella bontà degli uomini con un candore e un’innocenza commoventi e toccanti. “Le persone sono meravigliose” dirà alla figlia adolescente per convincerla di essere una persona fantastica nonostante tutti la additino come cattiva e spietata. E la figlia non è altri che Sadie Sink, star di Stranger Things, che vanta una lunga gavetta nel teatro capace di offrirle gli strumenti adatti per tenere testa alla monumentalità debordante dell’interpretazione di Fraser. E ancora Hong Chao, l’amica infermiera, candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista, straordinaria nel suo impasto d’amore, odio, rancore, fatica e disperazione nei confronti dell’amico Charlie che in più momenti invita a ricoverarsi ma che accontenta, forse per pietà o per troppo amore, ogni volta che le chiede cibo spazzatura.
Puntuale il lavoro del maestro del trucco prostatico Adrien Morot che agisce sulla fisiognomica di Fraser senza alterarne i caratteri e le particolarità così da potergli lasciare la giusta libertà per micro e macro espressioni, mentre invece a livello generale cerca di distruggere quel corpo patinato e tonico col quale abbiamo conosciuto Fraser in La Mummia (1999) o George re della giungla (1997) sformandolo , dilatandolo e gonfiandolo con protesi e gommapiuma, attraverso un bellissimo e certosino lavoro di artigianato. Da segnalare anche la fotografia del maestro Matthew Libatique (collaboratore stretto del regista) che cala la figura di Charlie in una perpetua semioscurità, facendolo emergere dal buio come se vivesse all’interno di una grotta, secondo l’acuta suggestione di Gianni Canova, come se il personaggio fuggisse dagli altri ma anche da sé stesso e finendo col rintanarsi in un antro lontano da tutti . Si pensi in tal senso anche alla scena iniziale con l’inquadratura che zooma sul quadratino nero dell’icona della videocamera che Charlie tiene spenta durante ogni incontro con gli studenti del suo corso come ad invitare lo spettatore a penetrare in quel luogo buio e asfissiante .
Aronofsky firma la sua opera più dura e sincera (si rammenti a quante volte, nel corso del film, Charlie inviti i propri studenti a scrivere nel modo più sincero possibile, fatto che non può non leggersi come una dichiarazione di poetica) nata da una lavorazione decennale e con il risultato di arrivare dritto al cuore e senza accantonare la sua identità di regista (come era stato per lo sfortunato Noah, 2014).
Per quanto riguarda Brendan Fraser, sul grande schermo dopo 20 anni di assenza, la critica parla già di Brendanaissence che potrebbe ufficialmente incominciare con la sua vittoria ai prossimi Oscar come Migliore attore protagonista. Lo speriamo tutti, e non solo perché è un grande attore ma soprattutto perché, dopo tutto quello che ha passato, è rimasto una straordinaria persona. E un artista immenso.