Il ritratto della settimana è dedicato a Jerome Klapka Jerome (1859 – 1927).
Vale la pena rispolvera questo nome che tanto ha contribuito ad allietare le mie giornate grazie all‘umorismo tipicamente inglese delle suo opere.
Il romanzo che più d’ogni altro lo ha consegnato alla storia della letteratura è Tre uomini in barca, ricco di gag, di giochi di parole e godibilissimi “misunderstanding”.
Jerome nacque in un villaggio vicino Birmingham, suo padre era un ferramenta e anche un predicatore benestante e piuttosto anticonformista. Visto il nome di suo figlio, l’umorismo doveva essere una dote di famiglia. Ma se come predicatore andava bene, come uomo d’affari lasciava a desiderare.Alcuni investimenti azzardati portarono ben presto la famiglia alla povertà e a vivere in un quartiere malfamato di Londra. Il piccolo Jerome crebbe come uno dei personaggi di Dickens: schivo, melanconico e con tanto di creditori che gli dormivano sul pianerottolo di casa. Poi la situazione peggiorò e a tredici anni il nostro si ritrovò orfano di padre. Finito? No.
Due anni dopo morì anche la madre e lui fu costretto non solo a cercarsi un alloggio ancora più miserabile, ma anche ad abbandonare gli studi per svolgere lavori umili.
Per qualche anno spalò il carbone lungo la ferrovia e per arrotondare, seguì sua sorella maggiore che faceva l’attrice, facendo qualche comparsata che si rivelò di scarsissimo successo. In tutto ciò, non aveva abbandonato l’amore per la lettura che aveva sviluppato fin da ragazzino e, lungi dal tenere il muso lungo, in realtà provò a scrivere tutte le sue avventure in chiave comica e a proporle per pochi soldi a riviste e giornali.
Ottenne rifiuti a palate. Solo il periodico The Play apprezzò la vena ironica e pubblicò i suoi racconti. I compensi erano magri e Jerome non ci pagava certo l’affitto, tuttavia fu una notevole botta di ottimismo che gli diede speranza, dato che il suo sogno più grande era quello di scrivere.
Successivamente le cose migliorarono (anche perché peggio di così era dura), e Jerome svolse altri mestieri tra cui: segretario di un professore, piazzista e persino portaborse di un avvocato. Nel tempo libero continuava a scrivere, giacché aveva scelto quella come strada.
Traeva ispirazione dalla quotidianità delle sue giornate ma anche da quella della gente comune che poi condiva con un po’ di satira e ironia. Cosa che piaceva immensamente ai suoi lettori e disturbava altrettanto enormemente la critica la quale non si è mai stancata di stroncare i lavori di Jerome.
Il 1885 Jerome pubblicò Sul palco e sotto, un libro che raccoglieva le sue vicissitudini di attore povero in canna al punto tale da doversi pagare anche i costumi di scena.
Il lavoro gli fruttò una certa notorietà e lui dovette tirare un sospiro di sollievo. L’anno dopo uscì I pensieri oziosi di un ozioso, una raccolta di racconti dedicata alla sua compagna di ozi: la pipa. In esso vengono presi in considerazione molti argomenti, tra cui la donna e la sua “manutenzione” e tutti dal punto di vista di uno scapolo allergico al lavoro. Il libro si vendette “come pane fresco” per dirla con le stesse parole di Jerome. Peccato che gli incassi furono bassi, complice il copia e incolla senza regole e l’assenza della legge sul copyright di allora.
A risollevargli l’umore, nel 1888, ci fu il matrimonio con Georgina Elizabeth Henrietta Stanley Marris, per gli amici Ettie. La donna era fresca di divorzio e con figlia a carico, questo non impedì al nostro di fare una bella luna di miele sul Tamigi che tanto influenzerà il suo romanzo più famoso: Tre uomini in barca (per tacere del cane).
Appena tornato dal viaggio si mise al lavoro, e dato che non aveva dimestichezza con i “romance” al posto della dolce metà, inserì nel romanzo i suoi migliori amici George Wingrave (George) e Carl Hentschel (Harris). Per loro ideò una serie di avventure comiche, forse grottesche, ma mai di cattivo gusto. In realtà Jerome voleva farne una sorta di guida storico-turistica, tanto che il titolo originario era Storia del Tamigi.
Per fortuna intervenne l’editore con la scure e ne fece il romanzo che tutti conosciamo e che – per inciso – alla fine aumentò davvero il turismo nella capitale. Infatti il libro vendette oltre due milioni di copie e il Tamigi divenne sul serio una ambita meta turistica. In Germania il libro diventò un testo di studio nelle scuole e tutto ciò riscattò grandemente le finanze di Jerome, in barba alla critica che aveva giudicato il romanzo come scritto da un demente.
“A me par sempre di prodigarmi più di quanto dovrei. Non che io abbia da ridire nulla contro il lavoro, si badi: il lavoro mi piace e mi affascina, e me ne sto seduto a guardarlo per ore e ore. Godo nell’averlo da presso, e l’idea di liberarmene mi fa male al cuore.”
Forte del successo e del denaro che stavolta correva a fiumi, il nostro decise di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Scrisse diverse sceneggiature e opere per il teatro ma mai ad eguagliare il successo di Tre uomini in barca. Non gli riuscì nemmeno col sequel cui diede il titolo di Tre uomini a zonzo, romanzo che ideò dopo un breve soggiorno in Germania. I personaggi sono gli stessi ma questa volta si trovano a zonzo nella Germania imperiale che descrivono con toni prosaici ma da cui si evince il sentore di una tragedia imminente… Per quanto non manchino gag e comicità, il romanzo non ebbe lo stesso effetto del precedente.
Intanto il nostro si era dato al giornalismo e nel 1892 divenne editore associato del mensile “The Idler”, rivista illustrata da cui passarono nomi del calibro di Mark Twain e Conan Doyle, per dire. In quel periodo Jerome conobbe il fior fiore degli influencer di allora e divenne amico di Wells. Con lui si avvicinò alla Fabian Society e a un socialismo moderato; era un riformista, Jerome, ma assai sospettoso nei confronti di progetti che prevedono una rigida ideologia. Era anche favorevole al voto alle donne, ma appena le suffragette iniziarono a manifestare in modo poco gentile, eccolo cogliere l’occasione per scrivere una commedia teatrale anti-femminista. Segno che non era ancora pronto ai grandi cambiamenti, dopotutto.
Successivamente divenne direttore del To-Day ma abbandonò la carica per questioni legali e tornò alla scrittura con la pubblicazione di Paul Kelver, romanzo chiaramente autobiografico; ma è nel 1908, con l’opera teatrale Il passaggio nel retro del terzo piano, che Jerome mostrò un radicale cambiamento di stile con una scrittura introspettiva e cupa. Niente umorismo, niente gag. Ogni personaggio descritto è alle prese con la propria coscienza non proprio immacolata e, grazie alla presenza di un misterioso straniero avvolto da un’aurea di misticismo, ritrova la propria umanità.
Emerge, in Jerome, una sorta di avvicinamento al cristianesimo, ma il retaggio puritano era ancora troppo forte e alla fine prevalse la sua genuina avversione dei confronti della Chiesa Cattolica Romana. Persino la figlia, Rowena, pur di non dargli un dolore, formalizzerà la sua conversione al cristianesimo solo dopo la morte del padre. L’opera comunque riscosse molto successo e, tanto per cambiare, venne aspramente criticata dagli addetti al settore.
E arriviamo alla prima guerra mondiale. Jerome, ormai famoso, volle dare il proprio contributo alla causa, nonostante l’età. Così si arruolò come autista della Croce Rossa.
Al termine del conflitto, tuttavia, ritornò amareggiato e pieno di biasimo verso tutti i progressisti che decantavano il progresso a suon di violenza.
“Se ne trovavano a ogni passo. Riformatori che non sapevano riformare se stessi, credenti nella fratellanza universale che odiavano metà del genere umano, accusatori della tirannia che avrebbero voluto appendere a un lampione gli avversari, pacifisti assetati di sangue, moralisti persuasi che ogni ingiustizia fosse giustificata per chi combatte in pro del diritto”
No, non sono state pronunciate l’altro ieri, ma cento anni fa.
L’esperienza vissuta la ritroviamo ne: Tutte le vie conducono al calvario e, successivamente nella sua autobiografia La mia vita e i miei tempi, pubblicato nel 1926, un anno prima di morire a causa di un ictus.