Cerimonia piatta, vincitori prevedibili, poche proposte di qualità. La 95esima edizione della Notte degli Oscar è tra le più boriose degli ultimi anni. Persino il Red Carpet ha lasciato il posto ad un meno accattivante “Champagne Carpet”
In un mondo giusto e soprattutto partecipe dei progressi dell’arte, Kerry Condon avrebbe vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista, il premio per il miglior film sarebbe andato a The Fabelmans di Steven Spielberg e la miglior regia a Martin McDonagh per il bellissimo Gli spiriti dell’Isola.
Ma purtroppo non ci troviamo in un mondo giusto, tantomeno se si parla di cinema e ancora meno se si vogliono commentare i risultati della 95esima edizione della Notte degli Oscar, conclusasi tra il 12 e 13 marzo 2023.
Salutata come l’edizione capace di riportare in gara i grandi blockbuster (Top Gun: Maverick, J. Krasinski, Avatar – La via dell’acqua, J. Cameron) e le proposte di alta qualità (Gli spiriti dell’isola, M. McDonagh, The Whale, D. Aronofsky), la cerimonia si è rivelata l’esempio perfetto di come uno dei premi più importanti del cinema mondiale possa abbassarsi ai compromessi più sciapi del politically correct.
Non che non sia stato così nelle edizioni degli ultimi tempi, ma mai nel modo così evidente e palese con cui l’Academy ha fatto le sue scelte quest’anno.
Col terrore che la cerimonia potesse essere scossa da qualche altra gaffe (si ricordi Faye Dunaway agli Oscar del 2017) o da un altro machissimo ceffone, il Dolby Theater di Los Angeles si è avvolto nel sottotono più esibito, facendo qualsiasi cosa fosse in suo potere per presentarsi come l’ “edizione della pace e della serenità”, a partire dal decisione unanime di cambiare il classico colore del red carpet con un più accettabile e meno impattante color champagne tanto era la pretesa dell’Academy di resettare e rilanciare una cerimonia ormai poco seria (e poco seguita).
Il registro dimesso dell’intera edizione non si è limitato a cambiare il colore di un tappetto, ma ha inciso sulle scelte dei vincitori e delle vincitrici delle candidature mai prevedibili come nell’edizione 2023.
Everything Everywhere all at once, il truffaldino lungometraggio dei Daniels costruito sul concetto di multiverso con l’unico scopo di omaggiare la carriera di Michelle Yeoh e incitare a rivalutate le nostre vite all’insegna di tutto ciò che vogliamo essere o diventare, si aggiudica, come da prescrizione, 7 tra i premi più importanti tra i quali Miglior Film e miglior sceneggiatura originale. Jamie Lee Curtis, candidata al miglior attrice non protagonista proprio per il film dei Daniels, ruba (è il caso di dirlo) il premio a Kerry Condon, molto più notevole in Gli spiriti dell’Isola. Intendiamoci, tutti amiamo Jamie Lee Curtis, soprattutto i cinefili la ricorderanno in Halloween (J. Carpenter, 1978) e in Una poltrona per due (J. Landis, 1983) e in tanti altri film straordinari che l’hanno resa un’icona del cinema di genere, ma quando si deve decidere tra l’interpretazione di Kerry Condon o anche all’intensa performance di Angela Bassett in Black Panther: Wakanada Forever e il monologo sulle ricevute fiscali della Curtis in Everything everywhere All at once, la decisione su a chi spetti il premio per la miglior attrice non protagonista dovrebbe essere scontato.
Ke Huy Quan, Short Round in Indiana Jones e il tempio maledetto (S. Spielberg, 1984) e Data in I Goonies (R. Donner, 1985), viene invece resuscitato dai Daniels in tempo per strizzare un occhio all’inclusione e al politically correct così da fargli vincere un Oscar come miglior attore non protagonista nonostante concorresse con Brendan Gleeson e Barry Keoghan, magnifici in Gli spiriti dell’Isola.
Steven Spielberg, che ha firmato a mio parere il film più straordinario del 2022, non vince nulla e nulla vincono Blonde di Andrew Dominik, Babylon di Damien Chazelle, Tàr di Todd Fields e persino James Cameron deve accontentarsi dell’Oscar (scontatissimo) ai miglior effetti speciali per il suo Avatar – La via dell’Acqua. In sostanza ancora una volta non vince il migliore.
La storia del cinema (come la storia dell’arte tout court) si è da sempre evoluta grazie ad opere prime e di grande rottura, film di passaggio capaci di inaugurare filoni e sequenze sui quali si sono poi innestati con inventiva e modernità nuovi autori e registi. Da Via col Vento (V. Fleming, 1940) a Rebecca: la prima moglie (A. Hitchcock, 1941), da Casablanca (M. Curtiz, 1944) a Il più grande spettacolo del mondo (C.B. DeMille, 1953) fino a L’appartamento (B. Wilder, 1961), Il Padrino (F.F. Coppola, 1973), Qualcuno volò sul nido del cuculo (M. Forman, 1976), Io e Annie (W. Allen, 1978), Il Cacciatore (M. Cimino, 1979), Il silenzio degli innocenti (J. Demme, 1992) e tanti altri. Si è trattato spesso di film non concilianti, abrasivi, dissacranti, eversivi, rutilanti, eccentrici e visionari.
Tutti aggettivi che non si confanno alla visione limitata e alla forma mentis conservatrice e poco ricettiva dell’Academy di quest’anno che ha deciso di escludere film critici come Blonde e Babylon o di relegare a poche categorie un’opera come The Whale che per fortuna ha fatto valere un Oscar meritatissimo (forse l’unico insieme all’Oscar per il miglior film d’animazione al Pinocchio di Guillermo del Toro) al protagonista Brendan Fraser. Per non parlare della scelta ultra – conservatrice e ipocrita di assegnare l’Oscar per il miglior film straniero a Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Dalla 95esima edizione della Notte degli Oscar risulta una certa mancanza di lungimiranza che incide tanto sull’andamento piatto della cerimonia quanto sulla scelta dei vincitori, sintomatica per quanto concerne lo stato di salute del cinema hollywoodiano. Un cinema sottotono, impigrito rispetto alla sua ricerca del nuovo, eccessivamente conciliante, un cinema dal quale sai già cosa aspettarti e che non vuole insidiare le certezze di un pubblico che intuisce già le risposte alle domande che i film proposti susciteranno.
Se a tutto questo si aggiunge poi l’infatuazione per il politically correct che “soggioga le menti e inaridisce i cuori” (Gianni Canova), il risultato non può che essere una cerimonia che ormai funziona un po’ come le cabine telefoniche londinesi: belle, ma non servono a niente.
Dopo l’edizione di quest’anno quasi rimpiango il ceffone di Will Smith.