Turbinia, dal gran sorriso e dalle mani gelide, venne messa alla pulizia delle scale. Tutti erano d’accordo: i quattro avvocati (tre divorzisti e un penalista); i cinque carpentieri (tutti e cinque nella nautica, ma tre da diporto e due in quella mercantile); i sette muratori (due lavoravano all’autostrada, tre in una villetta, altri due facevano i piastrellisti su un grattacielo); e i nove spazzacamini (spazzavano tutti i camini della città, tranne uno; uno di loro spazzava un solo camino: quello del sindaco). I quattro avvocati stavano nei due piani più alti; sotto c’erano i cinque carpentieri; poi i sette muratori, poi i nove spazzacamini, in fine c’era Turbinia, nel monolocale vicino all’ingresso. In totale erano ventisei rampe di scale, tredici piani, venticinque pianerottoli, un androne… Doveva pulire una volta alla settimana e lei, vedova, con un figlio quindicenne, avrebbe percepito un terzo di tutto ciò che veniva stanziato per il condominio. Turbinia era felice, si mise presto a strusciare.
Certo, prima di lei un’azienda di pulizie sbrigava la cosa con l’efficienza di un orologio. Erano otto uomini piccoli, dalla barba lunga, la carnagione slavata, gli occhi vispi, parlavano in lingua Bur, spesso bestemmiando in lingua Bur, spesso ridendo in Bur, inframmezzando le risate con battute in lingua Bur. Erano caotici come mulinelli, efficaci come idropulitrici e avevano tutti delle tute blu. Le tute blu, a essere precisi, avevano una striscia rossa che le tagliava in diagonale. E la striscia rossa, a essere ancora più precisi, aveva il nome dell’azienda sopra: Brandur Pulizie, caratteri cubitali, scritta bianca.
Brandur era un lontanissimo cugino di quindicesimo grado di tutti quegli ometti. Li aveva delocalizzati là, in quella terra di camini lunghi, condomini tristi, chiese bianche straripanti di guglie nere e cieli grigi, che si affacciava su un mare chiaro come una lastra di alabastro azzurro. Gli omettini, però, si erano stufati. Il primo problema era il caos che facevano loro: saltavano di rampa in rampa velocissimi e questo, con quel baccano, disturbava sempre uno degli avvocati divorzisti oppure quello penalista: sembrava si dessero il turno, almeno uno nei piani alti c’era sempre e almeno uno si sta scervellando su un caso. La concentrazione di uno di loro era sempre messa a dura prova da quei saltimbanchi che si sparavano di rampa in rampa urlandosi commenti in lingua Bur. Lo strillo dai piani alti risuonava con regolarità a domare quel baccano.
Ma c’erano problemi anche con i carpentieri: non ce n’era uno che non avesse da ridire su come si lavasse la ringhiera, su come lucidare il corrimano, sul prodotto da dare alle mattonelle accanto alle scale… Questo, il marmo, lo rovina! Idioti! Si sentivano dire da quello che lavorava i panfili e sapeva bene come maneggiare i materiali più delicati e il pianerottolo aveva un marmo che delicato e pregiato non era, ma era sempre marmo. Questo, con il ferro, non ci va! Diceva quello che scrostava gli scafi dei cargos, quando li vedeva lucidare le aste della ringhiera con quel stramaledetto detersivo, corrosivo! Sì, l’azienda i prodotti non li cambiava, loro sicuramente se ne fregavano… E però, la cosa aveva iniziato a pesare.
Con i muratori neanche a dirlo: quelli che lavoravano in autostrada lo sapevano di rischiare se a lavoro ci andavano con la sbornia, in mezzo a quei carichi, meglio essere reattivi, ma quelli che facevano piastrelle sul grattacielo e che lavoravano alle villette potevano bere quanto volevano, al massimo perdevano un dito con la fresatrice, poco male. Questi tornavano ubriachi, parlavano, dicevano cose agli uomini della Brandur Pulizie, bardati di blu, strisciati di rosso, e quelli della Brandur Pulizie in parte ridevano, in parte rispondevano in lingua Bur, qualcuno li apostrofava con parole comprensibile, ma l’accento le sporcava talmente tanto che il muratore non capiva lo stesso. Se avesse capito, avrebbe menato di brutto: erano offese pesanti. Be’, caso voleva che dei cinque muratori che rincasavano sempre malconci solo uno non era una testa calda. Gli altri tre, se pensavano di avere un pretesto per menare, menavano. Ecco che, anche avendo avuto la fortuna di non capire, elargivano manate e pugni con cadenza settimanale e gli ometti della Brandur Pulizie rispondevano menando di rimando. Denunciavano spesso, volevano un aumento, ma la Brandur Pulizie, quel lontano cugino, diceva sempre, sbuffando in lingua Bur, che avrebbe trovato soluzioni, che avrebbe fatto qualcosa, che cosa ne so, ora ci penso… E poi, però, non faceva mai niente.
Gli spazzacamini erano troppo stanchi per fare risse, per fare osservazioni, per lamentarsi dei rumori, dei rumori confusi dei diverbi diffusi con i carpentieri o dei rumori altisonanti delle risse squassanti con i muratori (sì, gli avvocati finivano per lamentarsi anche di quei rumori, di quel chiasso, di quei botti, di quegli urli, dando sempre la colpa agli omini con la barba e la pelle slavata). Gli spazzacamini però erano anche troppo stanchi per fare attenzione a non sporcare e così era che le prime rampe di scale, fino all’appartamento più in alto mai occupato da uno spazzacamino, erano sempre lerce anche se appena pulite. All’ultima volta in cui, arrivati a pulire l’androne, tre spazzacamini entrarono a distanza di venti minuti l’uno dall’altro, sporcando, sporcando, e risporcando, quello che loro avevano pulito, pulito e ripulito, ecco che quasi tutti gli omini gridarono allo sciopero. Gli spazzacamini manco si resero conto degli improperi e delle proteste, filarono in casa morti e sporchi. Il giorno dopo la Brandur Pulizie aveva rescisso il contratto, il lontano cugino si era impaurito quando i suoi omini lo avevano minacciato di non pulire più neanche casa loro, cosa che facevano gratuitamente, essendo, poi, tutti senza moglie. Per fortuna, proprio il giorno prima della loro scomparsa, Turbinia aveva completato il trasloco e il giorno dopo c’era la riunione di condominio.
Non sapevano bene quanto far lavorare Turbinia, mai si erano davvero occupati della logistica: quegli omini tenevano lindo tutto, a parte i primi piani dove stavano gli spazzacamini, senza bisogno di programmazioni o di riorganizzazioni, erano autonomi. A dirla tutta, gli spazzacamini dissero pure di darle metà di tutta la spesa condominiale mensile, furono gli avvocati a proporre un terzo. Tutti gli altri nel mezzo annuirono alle parole degli avvocati, a loro fregava poco, ma meglio non avere contro un legale… E poi, si pagava di meno!
Una volta sola alla settimana? Per tutti quei soldi? Pensò. Con uno stipendio così, sopravviveva, mangiava e dormiva, senza dover rinunciare a nessuna delle tre cose. Forse avrebbe potuto anche accendere la luce, o addirittura l’asciuga-capelli, o addirittura guardare la televisione. Erano lontani i tempi in cui invece di sopravvivere, viveva. Moglie di un esponente della microscopica borghesia, suo marito vendeva il pescatore. Aveva una casetta graziosa, calda, con pareti tutte in legno e fotografie di velieri in bianco e nero appese al limite del soffitto, che si affacciava su quel mare stava sempre zitto, fermo, senza muoversi, una tavola, shhh! Neanche un’onda! Con lui per anni aveva venduto il pesce nella bancarella sotto casa, davanti al porto. Non era portata. Sapeva solo fare i conti, ma neanche troppo, sapeva sorridere ai clienti, ecco quello sì. Il sorriso di Turbinia era contagioso. A volte venivano a comprare il pesce da loro anche solo per il suo sorriso, questo andrebbe ammesso. Che carina, Turbinia! In carne, ormai sfiorita, ma che sorriso che ha! Certo, non le stringere le mani, ti si gelano di colpo! Ma a parte quello, che donna splendida ed educata! Sì, quelle mani erano un po’ il difetto, notavano le mogli degli altri: gli avvocati, quelli seri, mica come quelli che stanno in quei condomini tristi, laggiù, lontano dal mare; i medici, quelli che si fanno rifare gli studi in quei grattacieli così alti, magari da abili muratori, abili piastrellisti!; gli ingegneri, quelli che dicono come costruire l’autostrada, dove mettere i pesi, dove mettere le gru e hanno la villina che viene ristrutturata da altri abili muratori; i disegnatori di barche da diporto; i proprietari dei mercantili… Che fiera di ricchi personaggi andava a comprare da loro e, ammettiamolo, al di là del pesce, ci andavano proprio per vedere il sorriso di Turbinia! Mai che le toccassero le mani, però… Un brivido gelido li frustava.
Sì, lei e suo marito non avevano una grande casa, ma avevano tanti figli, sette, e stavano bene! Oh sì! Poi, un giorno era andata ad accompagnare il suo figlio più piccolo dal medico, un loro cliente, e il padre ha portato a casa un pesce che pensava fosse una specie rara di quelle rarissime… Invece era un’altra specie rara, di quelle rarissime, ma tropicale e velenosa! La portò a casa pensando che fosse commestibile! Oh, poverini! Tutti stecchiti a parte lei e il figlio minore… Però, ecco, alla fine, se ci pensate, a lei andata bene: pensa se il pesce velenoso lo avesse venduto al sindaco! Anche lui andava a comprare da loro! Adesso sarebbero tutti in galera… Meglio così! Dicevano le comari che rimpiangevano il sorriso di Turbinia, ma non le sue mani fredde, rimpallandosi la storia.
Imparò a fare una serie di mestieri che non imparò mai davvero a fare e sbalzata, Turbinia, di luogo in luogo. Le case, piano piano, sparivano dal mare: si allontanava sempre più da quella tavola perfetta, mai increspata, così affidabile, quel mare dispensatore di pesci, amico di famiglia, confidente e amante. Quel mare le calmava il freddo alle dita. Lo aveva sempre avuto quel gelo che si diramava fino al polso, era un gelo che prendeva quasi a farle i polpastrelli degli indici e degli anulari e dei mignoli, tutte le volte che suo marito, ridendo di lei, la metteva da parte. Cercava spesso di consigliargli come sistemare il bancone, come rigovernare casa, come fare qualcosa… Ma lui in lei non ci credeva, non lo diceva, ma l’aveva sempre ritenuta stupida. E diciamolo, lei si fidava di questa sensazione del padre di famiglia. Quel mare sparì di finestra in finestra, sempre più lontano, sempre più verso l’entroterra, di casa in casa, sempre più dimenticato. I mestieri non li conosceva, imbranata lo era per davvero e quelle mani erano diventate, di casa in casa sempre più gelate.
Quantomeno, cercò di sorridere di volta in volta, di lavoro in lavoro, di contratto d’affitto in contratto d’affitto, ma senza riuscirci mai del tutto. Il suo sorriso ormai era spento e le mani sempre più fredde, neanche suo figlio le poteva più toccare, a quel monolocale ci arrivò senza che lui si facesse anche solo sfiorare la fronte per farsi sistemare i lunghi capelli da quindicenne.
Arrivata in quel monolocale sudicio, lurido, angusto, si convinse di aver trovato il suo posto. Non avrebbe fatto nessun lavoro se non quello di pulire quelle scale. Sarebbe stata da sola e questo era perfetto perché era stanca di persone che la rampognavano per la sua mancanza di professionalità e solerzia. Sì, un lavoro in solitudine, lei e le scale… per due giorni! Il resto? Niente per tutta la settimana. Due giorni non erano tanto? Mah, un po’ gli ci sarebbe voluto, no? Tredici piani! Lei non sapeva neanche lavare le scale, quindi due giorni forse era una prospettiva anche rosea.
La prima volta, Turbinia partì dal basso. Non lo sapeva e realizzò di aver fatto la cosa all’incontrario – una mezza sensazione ce l’aveva del fatto che qualcosa non andasse – più o meno al dodicesimo scalino della quinta rampa. Lavare quelle scale volle dire faticare per tre giorni, dopo aver adeguatamente ripreso le pulizie ripartendo dal tredicesimo piano. Prima la ringhiera: ogni singola asta andava lucidata, (e dire che nessuno dei carpentieri commentò, nonostante si mise a lavare le mattonelle con il prodotto per la ringhiera e la ringhiera con quello delle mattonelle). Il corrimano aveva incrostature impossibili da levare – si impegnò sul serio, voleva tenersi il posto – erano chiazze di alcol solidificato. La parte bassa della ringhiera stessa era un punto ostico: si doveva piegare e rimanere, scalino dopo scalino, lucidando e sfregando, e anche lì, le incrostature non mancavano di certo: sempre alcol! Contò trecento trentotto scalini. E si convinse molto presto che la paga era fin troppo bassa.
Certo, i muratori non la importunavano, i carpentieri non la consideravano, gli avvocati non la riprendevano (di rumori, fra risse e urli, non ce n’erano più quantomeno) e però, ben presto, un sottaciuto odio verso gli spazzacamini le gelò ancora di più quelle mani con cui spazzava e strusciava. Sì, imparò a lavare velocemente, ma lo sporco si accumulava ancora più velocemente e questo, soprattutto per colpa di quella fuliggine nera che gli spazzacamini facevano entrare ogni volta dall’androne, fin su le rampe delle scale. Si accumulava anche sulle pareti. Lei strofinava, lei puliva, lei ripuliva e lo sporco mano a mano aumentava. Quelle scale, di giorno, in settimana, in mese, diventavano sempre più nere. E però… Non era più solo la fuliggine degli spazzacamini. Capì che la colpa, in realtà, era un po’ di tutti: le mani le tremarono per il freddo.
Gli avvocati per esempio, soffrivano tutti di un disturbo identico, tanto dispettoso, quanto schifoso: tutti e tre perdevano quintali di forfora scendendo e salendo le scale. Neanche lo sapevano, nessuno glielo aveva mai fatto notare, si indispettirono pure ma poi, da soli, ognuno nei loro appartamenti, capirono perché a lavoro tutti stavano loro lontani. Ci provarono, colpiti nell’orgoglio, ma la forfora non riuscirono a levarsela dalla testa neanche morti, neanche non pensandoci. Finché era compito degli omini in divisa, avevano lavato e lavorato quelle scale con tanta dedizione e dotati di tali, ottimi prodotti che quel problema non era mai diventato un problema visibile. Ma ora c’era solo lei, che non lavava con la stessa cadenza e con gli stessi prodotti.
Discussero tutti insieme di aumentare le spese comuni, in maniera tale che Turbinia avrebbe poi potuto lavare con prodotti migliori. Ma carpentieri, muratori e spazzacamini non volevano versare un centesimo di più per un problema che non fosse nato dal loro transito su e giù per le scale. E gli avvocati, però, dal canto loro, si trovavano tutti e quattro d’accordo sul fatto che se gli altri non facevano nulla, loro non avrebbero fatto niente, giacché poi, uno di loro, a dirla tutta, non era causa del problema: uno dei tre divorzisti era pelato. Conclusero i restanti divorzisti e il penalista: noi nella forfora ci viviamo già. Il problema non venne risolto, quantomeno era stato affrontato!
Dal canto dei carpentieri invece, c’era tutta una mistura di polveri che si lasciavano dietro, passo dopo passo, su quelle scale, che era pestilenziale e che Turbinia cercava di eliminare strofinando e strofinando, ma che si accumulava con una solerzia e un’assertività, una convinzione, una radicalità che le faceva dubitare di essere brava a imprimere forza su quel corrimano, a imprimere forza su quella scopa, a imprimere forza in generale. Sudava, si faceva le spalle, i muscoli, digrignava i denti, ma quella mistura di polverine di piombo per vernici di mercantili e di platini per conduttori nei panfili, rimaneva assertiva e convinta: io sto qui, da qui non mi ci levi! Diceva. Certo, finché gli omini lavavano e rilavavano non faceva mai in tempo a mettere radici, quello strato di metalli cattivi e ignoranti, anche se pregiati, ma ora… Turbinia sgranava gli occhi e batteva i piedi per terra. Una volta si mise anche a piangere. Se per la forfora il problema era la quantità (non faceva in tempo a levarne che ne arrivava dell’altra, sempre di più – incredibile quanto quei tre scarmigliati ne producessero –), era proprio la pervicacia. Quelle polveri sono pervicaci, testarde, cattive!… urlava, dentro di sé, stremata. I carpentieri risero: basta strusciare più forte, ma un po’ di forza in quei braccioni da massaia ce l’hai o è solo grasso?! Turbinia non rispose, le mani le facevano male per il freddo. Si chiuse in casa e il figlio, ritornato dalla partita a calcetto coi muratori – ci stava legando con quegli altri lì – le fece notare che le scale facevano sempre più schifo.
Campava con poco, non avrebbe speso un centesimo di più per un prodotto più costoso, ora che il figlio spendeva anche soldi per andare fuori con quel gruppo di scimmioni, arroganti, impavidi, maledetti loro! E non più solo a calcetto. Le mani le facevano sempre più male, per il freddo. I muratori però, diciamolo, quantomeno, rompevano le palle solo con una sostanza: la calcina. La calce si levava bene, in fondo… Sì, si levava bene sì!, ma anche lì, ne portavano a fiotti! Litri di calcina, litri di roba, poi anche di birra, poi anche… Ecco che si ritrovò a pulire le scale dalle bottiglie di birra frantumate! I pezzi di vetro li aveva sempre trovati, ma ora iniziavano a conficcarsi nelle mura, negli scalini… Era come se… sprofondassero… No, forse anche i muratori erano insopportabili come gli altri, se non peggio: tutte quelle macchie di alcol, erano le bottiglie di birra, di vino, di superalcolici che frantumavano la notte fonda al ritorno… Certo, non quelli che facevano autostrade, quelli erano quelli che portavano la calcina… Sì, sembravano collaudati per dividersi i compiti.
Non ne parlò alla riunione di condominio. Non volle trattare la cosa, le mani le davano da pensare, faceva ormai fatica a reggere la scopa e il mocio. Decise direttamente di parlare agli spazzacamini, li prese da parte un giorno, quando li trovò fuori dal palazzo a fumare. Per l’ennesima volta, vi dico, che non ce la faccio più! Siete insopportabili come gli altri, ma voi almeno un po’ di ascolto me lo date. E solo voi mi dite che vi dispiace. Solo voi me la menate col fatto che siete dalla mia parte e però, maledetti voi, rientrate sempre a casa lerci, zozzi, e i primi piani diventano un letamaio anche se li ho appena puliti! Queste scale stanno impazzendo! Gli ultimi piani hanno solo la forfora, poi alla forfora si aggiungono le polveri dei carpentieri, poi calce e alcool, poi in fondo voi con quantitativi di fuliggine che sono impossibili da gestire. Io abito al primo piano, me ne potrei sbattere. Non ce la faccio più. Io devo lavorare. Aiutatemi almeno voi! Almeno voi!
Gli spazzacamini erano in nove e otto di loro quasi avevano le lacrime agli occhi – uno se ne sbatteva (quello che lavorava per il sindaco) – e si dissero, tutti e nove – anche quello che se ne sbatteva alla fine condivideva, pur sbattendosene – che avrebbero dovuto fare leva sulla loro quantità per convincere gli altri ad aiutare Turbinia. Erano pur sempre in nove.
Presero cinque dei muratori, sai là, dove si buttano a bere gli scaricatori di porto? Quei localini in riva al mare, dove si beve di tutto, che fanno schifo, che schifo che fanno, ci si fa di tutto per endovena e sniffando? Là, quei bei posticini là! Li presero in nove. Sì, loro erano in nove, i muratori erano in cinque. Gli spazzacamini esposero la situazione. I cinque muratori dovevano convincere gli altri due muratori a convincere i cinque carpentieri ad aderire alla proposta risolutiva per aiutare Turbinia. I quattro avvocati avrebbero concordato, un legale non si mette mai contro un intero condominio di lavoratori dalle mani grosse e callose. Se quei cinque non ci fossero stati, gli spazzacamini li avrebbero cercati, sempre quei cinque, e li avrebbero tritati di schiaffi: ma voi le mani di uno spazzacamino, le avete mai viste? Ecco! Però, sappiatelo: i muratori non erano molto intimoriti. Sì, però, cavoli, quelli erano in nove! Loro erano in cinque! Cinque meno nove, nove meno cinque? Quanto fa? Quelli mica erano degli ometti bassini e slavati con la barba lunga! I cinque si convinsero che i nove avevano ragione e arrivarono nelle loro case e la mattina dopo convinsero gli altri due! Bravi! Tanto erano in cinque contro due! Uno di quelli che faceva piastrelle nei grattacieli si impuntò però: lui si sentiva più importante, mica faceva pilastri di autostrade, in altre parole: lui valeva per tre. Tre per uno tre, gli altri saranno stati in sei ma… Partirono schiaffi e litigarono per giorni. I muratori si spaccarono, si frammentarono: uno più uno più uno… e via dicendo. Tornarono dagli spazzacamini e ci fu una discussione lunga: chi diavolo erano loro, per dire a loro, muratori, come comportarsi? Loro erano in nove, risposero gli spazzacamini. Il più grosso dei muratori, che i piloni li costruiva a sputi – che era meno grosso però del piastrellista – urlò che lui valeva per cinque. Gli spazzacamini si misero a ridere. Partì una rissa e fu una rissa di quelle che si autoalimentò per giorni, macché giorni, gruppi di sette giorni che si chiamano settimane!
Turbinia dovette iniziare a pulire anche il sangue e a volte i denti che trovava per le scale. Lo faceva inorridendo, con fitte fredde alle punte delle dita. I muri piangevano, urlavano neri per lo sporco, per la fuliggine, grigi per le polveri e la calcina, bianchi per la forfora, bianchi per i denti, luminosi per i vetri delle bottiglie rotte, di tutti i colori per l’alcol solidificato. Sì. Sudavano di alcol. Suo figlio se ne fregava, ormai andava a bere con i carpentieri, neanche più solo con i muratori, con i carpentieri! Idiota! Anche loro bevevano, ma meno, eh, ribatteva. Il carpentiere è un mestiere difficile, pericoloso: fiamme ossidriche, cose, pesi, mica puoi andarci pesante con i postumi! Lei e suo figlio erano sempre più distanti. Distante. Si sentiva distante da quelle mura che anche se puliva rimanevano sporche, come se non l’ascoltassero. Si sentiva distante dalle sue mani che le pareva non fossero più in grado di percepire cose e sensazioni. Si sentiva distante da tutto e, cosa che le sembrò insignificante, si rese conto di sentirsi distante anche dagli spazzacamini, che invece di fare qualcosa di concreto come avevano promesso, si erano messi a fare a pugni, a fare i pugili con i muratori! Idioti! Non rivolgeva più a nessuno la parola. Neanche a suo figlio, che ruttava e parlava come ognuno di loro e che le rispondeva con la stessa idiozia. Sentiva sempre più freddo da qualche parte, là, dove doveva avere le mani, ogni volta che nelle parole del figlio riconosceva quel modello esemplare. Le scale diventarono rovi di sporco, spinati di denti persi e vetri rotti. Il condominio marciva e lei taceva.
Gli spazzacamini però, a suon di manate, riuscirono a sfiancare i muratori. Loro erano in nove! E avevano dato la loro parola e anche se a uno di loro non fregava niente, proprio a lui, menare le mani non dispiaceva per nulla: qualsiasi pretesto era valido. Muratori e spazzacamini si coalizzarono per parlare finalmente ai carpentieri. Nove, contro sette. Bene!
Turbinia aveva iniziato ad assuefarsi a quell’odore pestilenziale, a quel brillare di pareti nere, e nel silenzio in cui si era ficcata non trovava neanche più parole per definire quanto le facesse schifo ciò che i suoi occhi pigri cercavano di masticare a fatica, occhiata dopo occhiata. Gli avvocati ci passavano velocemente, per non dover ridursi ad ammettere che la situazione era inqualificabile, veramente!, i carpentieri erano schifati, ma non volevano darlo a vedere per una questione di virilità, i muratori non se ne accorgevano e gli spazzacamini lo notavano e volevano fare qualcosa e forse finalmente ci erano riusciti a smuovere la situazione.
Quello che Turbinia non si spiegava era come tutto lo sporco che all’inizio si trovava solo ai piani bassi, fosse arrivato anche all’ultimo piano. Se un carpentiere non andava ai piani dove stavano solo gli avvocati, perché anche sullo zerbino dell’avvocato penalista, che stava più in alto anche degli stessi divorzisti, c’erano le polveri dei carpentieri? Se un muratore non andava fino al piano dove stavano i carpentieri che facevano navi da diporto, perché ci stavano la calcina e l’alcol, segni imprescindibili del passaggio di un muratore, anche nei piani dove arrivavano solo i carpentieri e anche in quelli dove stavano gli avvocati? Com’era la storia? L’alcol colava all’incontrario, risalendo verso tutti i piani, infiltrandosi passando per il soffitto? Perché la fuliggine degli spazzacamini la trovava fin lassù, fino allo zerbino del penalista? Fin sopra gli architravi delle porte di ingresso degli avvocati divorzisti? Le uniche cose che si erano organizzate in quel palazzo, erano lo sporco e suo figlio.
Suo figlio aveva preso l’abitudine di passare il tempo con gli avvocati, a maggese. Se li girava. Beveva dall’uno, il vino buono, fumava dall’altro il sigaro invecchiato, non imparava niente da loro, neanche a scuola che ormai disertava, perché proprio i carpentieri gli avevano detto che studiare era inutile. I muratori avevano confermato. Gli spazzacamini lo sporcavano con bonarie pacche sulle spalle ogni volta. Ma si era organizzato anche lì: sapeva quando vederli e sapeva quando incastrare ogni incontro, in maniera da farsi dare pacca dopo pacca uno sporco di fuliggine omogeneo su tutto il viso, tutto il giacchetto, tutta la maglietta. Da tutti prendeva qualcosa: una pervicace voglia di essere insulso dentro e sporco fuori. Sì, Turbinia lo notò piangendo per il dolore che il freddo alle mani gli provocava: a suo figlio quella fuliggine addosso piaceva.
Non ce la fece. Prese da parte tre degli spazzacamini fuori dal condominio a fumare e gli urlò contro i peggiori improperi. Non parlava da due mesi e, ora che lo faceva, offendeva? Loro l’avevano abbandonata?! Loro le avevano promesso cose e mai le avevano fatte?! Loro erano infami tanto quanto gli altri?! Ma che vuole ‘sta matta! Sì, perché almeno, gli altri, non riempivano di fuliggine loro figlio ogni volta! La facevano a posta?! Turbinia non era mai stata così lontana da quel sorriso che sfoderava alla vendita del pesce al mercato: gli occhi, sporchi, iniettati di chissà quale sostanza, erano neri come la pece per la rabbia e il volto sembrava unto da una forza che le faceva grondare sudore e ira sulla pelle. I tre spazzacamini tacquero, non dissero niente. Si rifecero però con gli altri sei spazzacamini (sei più tre, nove): neanche avevano notato loro di starle così tanto sulle palle, loro che si erano menati di santa ragione per i muratori?! Perché diavolo pensava si fossero ficcati in quel ginepraio di mani, braccia, corpi, a tirare sberle?! Nove contro sette! Per il piacere di farlo?! Uno urlò: sì! Gli altri otto rimasero sul punto: chi si credeva di essere questa! Loro davano pacche sulla faccia a suo figlio perché questo correva loro incontro, perché era simpatico, ti viene da passare la mano sulla testa di un ragazzino, a scombinargli i capelli. Certo, sono pieni di fuliggine, ma loro nella fuliggine ci vivono, mica ci pensano! Una frase che riportò uno di quelli che era stato presente alla scenata, colpì gli altri. Quando sarete polvere, inizierò a spazzare! Cosa intendeva? Nessuno di loro se lo seppe spiegare, ma tutti andarono alla riunione straordinaria di condominio con un animo decisamente diverso da quello che si erano immaginati all’inizio, quando avevano deciso di aiutarla.
I carpentieri, convinti a cascata dai muratori, avevano convinto gli avvocati. Mica c’era stato bisogno di chissà che. Erano arrivati dagli avvocati, avevano detto con grande tranquillità: presentatevi, perché gli altri hanno le palle girate; e se ne erano andati senza aspettare la risposta dai legali. Tutti e quattro si organizzarono di conseguenza. Gli spazzacamini avevano finalmente convinto i muratori a convincere i carpentieri a convincere gli avvocati a venire lì, nell’enorme cantina, sotto il monolocale di Turbinia a discutere della situazione. Nessuno sapeva bene che proposte volessero fare gli spazzacamini per aiutare la donna, sapevano che era una questione legata alla donna del primo piano, si vociferava fra carpentieri e legali, ma nessuno sapeva quale fosse la proposta… E nessuno lo seppe mai. Gli spazzacamini si presentarono e urlarono: ragazzi, era tutto uno scherzo! Portarono sigari, alcol, e invitarono il figlio di Turbinia.
Quel sorriso di Turbinia nascondeva da anni un enorme fastidio. Fastidio per tutto! I suoi sei figli – il settimo, quello più piccolo, di solito si comportava come un angioletto, al tempo – sporcavano regolarmente. C’era però chi puliva. Il pesce si vendeva, la donna delle pulizie arrivava e a lei toccava solo sorridere dietro al banco del pesce. E però, come sporcavano quelle sue creature! Come lasciavano i bicchieri senza sottobicchieri sul tavolo! Come si dimenticavano di pulire per terra quando cascava loro un pezzo di torta! Come lanciavano i maglioni sulle poltrone! Che maleducazione! Da quando erano nati e aveva notato una certa sua incapacità a capire come dire loro cosa, di loro, le dava fastidio e come evitare quegli atteggiamenti… Da quando, insomma, quei suoi sei figli, tutti maschietti, tutti indecenti, erano diventati maschi indecenti, abbastanza grandi per poter farle pensare di averli educati male… Ecco che le mani le si erano infreddolite… Aveva nascosto a sé stessa un enorme fastidio, ma le sue mani la tradivano rivelandolo sottoforma di gelo. Gelo che peggiorò quando si rese conto che anche suo marito la trattava con sufficienza: lei, per lui, era un soprammobile, un oggetto da disporre nella casa. Suo marito era parte di quel sistema dove lei non riusciva a farsi valere. L’aiutava a sentirsi inutile, inerme come una poltrona, mentre i suoi figli sulla poltrona ci saltavano sopra con le scarpe indosso dopo aver saltato per pozzanghere, giù per le strade grigie di fronte al porto.
Quando morì suo marito e tutti i suoi sei figli, quel gelo profondo non si frenò. Non aveva fatto nulla per risolvere la situazione. Un’altra volta in cui era capitato un disastro e lei era lontana e distante. No, quelle morti non frenarono quella corsa verso le temperature più gelide sopportabili dalle sue ossa e dalla sua epidermide. E invece di diminuire, per i fastidi che ormai non avrebbe dovuto più sopportare a contatto con quella folla di omini che erano i suoi figli con suo marito, il freddo aumentò, di casa in casa, di lavoro in lavoro, di affitto in affitto, di assunzione in assunzione.
Nuovi fastidi, nuove scocciature, nuove fatiche, diverse, più lancinanti. Nessuno l’aveva mai più toccata. Suo figlio fuggiva dalle sue mani da anni, soprattutto ora che suo figlio sembrava, in tutto e per tutto, uno di quegli energumeni che l’avevano trattata come la suola marcia di una scarpa putrefatta: con schifo, sdegno, e lamentandosene, l’avevano lasciata lì, dove l’avevano trovata, a marcire. Un uomo non cambia le scarpe, un uomo ci cammina finché le scarpe non cambiano vita e diventano, per loro volontà, rifiuti. Lei ormai era diventata un rifiuto e suo figlio la rifiutava come gli altri, ruttando, rispondendo, guaendo, abbaiando come aveva fatto suo marito e i suoi figli. Chissà come stavano le scale, disse una volta vedendolo rientrare a casa, uguale nella sufficienza a suo padre, identico nell’irruenza ai muratori, con la stessa arroganza dei carpentieri nei modi, dotato della stessa, medesima infamia degli avvocati nello sguardo. Che cosa aveva preso dagli spazzacamini? Si mise nel divano, lercio – Turbinia non puliva neanche più casa sua – e si mise con le scarpe sudicie, poggiate sul bracciolo a insozzarlo ancora di più.
Quell’immagine la sfiancò. Le mani erano vetro tanto erano fredde mentre aprì la porta per uscire e ritrovarsi nell’androne. Come usasse le sue mani, in quelle condizioni, non lo sapeva neanche lei. Il meccanismo stesso della porta si era appena gelato, ghiacciato, fino alla toppa, mentre si lasciava alle spalle l’ingresso di casa sua. Notte, era notte, e sapeva che tutti erano a dormire. Il lunedì non ci sono stravizzi, il martedì si lavora tutti!
Il palazzo era diventato frutto di un indigesto disordine maligno. Quello sporco era frutto di tutta la sua sufficienza? Anche lei era stata sufficiente! Lo era stata con sé stessa, si disse. Aveva pensato, stupidamente, di poter fare qualcosa, lei da sola, contro tutto quel malessere. Quello non era sporco. Era malessere. Lei che non aveva saputo fare niente nella vita, era stata sufficiente con sé stessa, perché avrebbe dovuto avere la forza di darsi forza. Invece si era lasciata trasportare fino a quel punto, un pesce velenoso, in quella casa, in quel condominio. Il suo veleno erano le sue mani.
Non avrebbe mai saputo perché, né come, ma sentì il bisogno di avvicinare la punta del dito a una scheggia di vetro conficcata nella parete dell’androne. Con la punta del dito, quando la tocco, le parve percepire ogni singolo scalino, ogni singola rampa, ogni singolo piano, ogni singolo centimetro di quello sporco inumano e indecente. La punta del vetro sentì un freddo insostenibile. Si spezzo, si frantumò, si nebulizzò, ma nel farlo, a contatto con quel freddo, per reazione, prese fuoco. Sì, fu una reazione. Fu la reazione. Le polveri sottili lavorarono con la calce, che lavorò con la fuliggine, che lavorò con il vetro, con l’alcol, con la forfora, tutto unito insieme, unto in un enorme lavoro, per dipanare nel giro di istanti una fiammata micidiale.
Lontano da quel mare piatto come una tavola, un condominio divenne una torcia nella notte, attirando tutti i condomini che stavano nei palazzi adiacenti. L’incendio attirò anche i pompieri e il giorno dopo, nelle macerie, pure i medici. Se i pompieri avevano cercato di spegnere il fuoco, i medici avevano solo potuto decretare il decesso di un ragazzo, una donna e venticinque uomini. Tutti si sorpresero di come dei loro corpi e delle macerie stesse fosse rimasto pochissimo, il tanto per la conta dei corpi. Era stato un fuoco così vorace da renderli completamente polvere. Una polvere che rimase lì. Quella zona era già malfamata, del resto, e nessuno, fra spazzini, assessori e il sindaco stesso, non si volle mai accollare l’onere di pulire quel disastro. Lo fece il vento, piano piano.
Time-lapse a cura di Anja Aurora Mazza