“Ma sai che c’è?! Io vado in guerra.” Pensò fissando il soffitto. Soffitto a schermo, tredicimila ottocento evr, impiantato, pannello di pixels dopo pannello di pixels, da operai specializzati: “che immagini raga’, immagini stupende, risoluzione stratosferica, una ficata” avrebbe detto per un anno, ogni giorno, ai suoi compagni della prima superiore.
“Che cazzo ci sto a fare qui?!” Pensò poi. Lo aveva pensato dopo essersi alzato dal letto: un materasso a aria, ma non i classici, l’aria aveva una soluzione di gas tale per cui la forma del corpo si adattava alla superficie del materasso come se la superficie del materasso stessa non ci fosse: “una roba incredibile” avrebbe ripetuto ogni volta che cercava di portarci qualche sua compagna dal secondo anno in poi, quando aveva iniziato a pensare alle ragazze. Scoprì solo al quarto anno che aveva detto una gran cazzata, l’aria era solo aria, era la membrana del letto, con microfibre speciali, a costare quei benedetti settemila mila evr, il prezzo di un’utilitaria… Si sentì idiota, ma continuò a raccontare la storia del gas… faceva più fico.
“Non ci faccio niente qui, questo è il punto.” Si rispose poi, ma solo dopo essere uscito dalle porte placcate in platino della sua camera, aver varcato il corridoio-biblioteca con colonne in marmo Turvia, (“marmo rosso senza nessuna striatura, un miracolo!”, avrebbe detto a quelli dell’università per anni) e solo dopo aver rubato, in fine, al frigo una confezione di latte purissimo di vacca, (mica quello sintetico che si bevevano gli stronzi la fuori!) e aver guardato l’enorme panorama dalla cosmica vetrata circolare del suo attico.
I suoi pensieri si erano rallentati negli anni. Il problema era la distanza degli oggetti in casa sua. Pensava troppe cose da un oggetto all’altro, da un mobile all’altro. Questo si disse e viveva da solo, il padre l’aveva scaricato là, la madre era stata scaricata anni prima in qualche isola laggiù, il fratello si era scaricato chissà dove… Non ci voleva pensare a tutta ‘sta roba, comprensibilmente! Doveva rallentare i pensieri. Quando dal divano doveva arrivare a vedere chi aveva citofonato alla porta cercava di misurare i concetti e le parole. Era accaduto troppo spesso che avesse immaginato troppi volti nel riquadro del display del citofono, volti che alla fine non erano mai quelli che sperava. Ma a rallentare le immagini e i concetti e le parole, rallentò anche il suo studio. Era bravo il primo anno, un po’ meno il secondo, ancora di meno il terzo, il quarto anno di liceo lo fece alla perfezione: iniziò a pagare qualcuno che barasse clamorosamente alle verifiche. Se si poteva comprare anche l’aria che gli altri respiravano, perché non avrebbe dovuto comparsi la loro competenza? La loro bravura? Il padre, se ne fregava… Quello vendeva gas e stava bene così, lui poteva diventare una larva, ce l’avrebbe fatta comunque… Cosa è il merito, quando si è in cima alla piramide? Sì, la famiglia l’aveva scaricato in quella villa gorgogliante di meraviglie dai tempi della prima liceo, lui, che per fare il liceo giusto, era andato fino a Zuviat. “Eh, io vado a Zuviat” disse ai compagni delle medie, che certo… Ricchi erano ricchi, ma mica come lui!
Abituato com’era a formulare pensieri lentamente, non si chiese troppo se era una buona idea o no andare in guerra. Ormai il rallentamento del pensiero lo aveva intorpidito, era diventato, più che stupido in sé, mentalmente pigro. Formulare pensieri complessi richiedeva velocità e con la sua flemma nel ragionamento che ormai lo impantanava ebbe solo il tempo di concludere in fretta e furia con il minor numero di parole che aveva a disposizione per vagliare la cosa. Di fronte alla sua enorme vetrata circolare che dava su un incresparsi di grattacieli bianchi e color oro e argento, urlò a sé stesso: “sì, lo voglio fare, cazzo!” capitolando sul suo divano di dodici metri: bianco, in pelle di Vaind, trentadue mila cinquecento evr “spaziale!”…
Ora però Vomeker doveva iscriversi al servizio di leva: paracadutisti, lui voleva lanciarsi… Quello voleva fare! Quando ancora fingeva con sé stesso di avere una vita e si scopava ragazze e gozzovigliava ed i primi anni di università sapevano dei super-alcolici più in voga e più esclusivi a cui un essere umano potesse accedere, si era lanciato diverse volte. Aveva smesso di lanciarsi quando un istruttore ebbe il coraggio di fargli un cazziatone di fronte all’intera comitiva che si era portato dietro. Quel cazziatone gli ricordò i cazziatoni di suo padre: erano pochi, decisamente fuori luogo, fuori tempo, spropositati e, pur arrivando in ritardo, lo distruggevano dentro corrodendolo all’istante, una corrosione veloce. Sentì che quel cazziatone era giusto, l’istruttore si era stancato di costringere lui a tirare la corda oltre il limite massimo, tutti i soldi del mondo che poteva avere se li ficcava in culo! Era un idiota! Non aveva il diritto di mettere in pericolo di vita lui o qualsiasi altro che si paracadutasse in coppia con lui facendogli da guida, era un pezzo di merda, viziato, una testa di cazzo. Il fatto che poi l’istruttore perse il lavoro non lo rincuorò. Lui smise di lanciarsi… Si sentiva stupido… Perché poi adorava quel brivido? Perché aveva voglia di rischiare la vita così tanto? Queste domande non se le fece, la lentezza lo aveva reso un suo feticcio. Troppe domande, da fare tutte in serie. Si disse solo che voleva rifarlo, ma per i militari, sì, sapeva solo questo. Ma come fare la richiesta?
All’università ci andava già un suo doppione, per i corridoi, in segreteria, a studiare con gli amici, simile a lui in tutto e per tutto, tranne che nella voglia di vivere. Pagato benissimo per studiare e raggiungere i migliori risultati, si bruciò esame dopo esame diventando quello che forse suo padre avrebbe voluto diventasse, se se ne fosse mai vagamente fregato della cosa: lui aveva il gas e lo cazziava quando voleva, quando poteva, e quando era giusto, ma solo per il gusto di cazziarlo giustificatamente, non per insegnargli qualcosa. Suo padre era uno che avrebbe voluto probabilmente compare anche il suo aborto, se avesse avuto modo di pagare il tempo in contanti… Questo si convinse quando arrivò la laurea e l’unico che si presentò alla festa fu proprio il padre e non riconobbe il doppione, ma lo cazziò comunque… Qualcosa di giusto per cui cazziarlo lo trovò. Sì, il doppione aveva scritto la tesi e si era presentato alla festa, spacciandosi per il vero Vomeker… Al vero Vomeker aveva smesso di fregare qualcosa della triennale, della magistrale, del dottorato di ricerca quasi sin da subito. Da quella volta in realtà in cui si era lanciato da quarantamila metri, (dove si vedevano gli hotel in orbita come piatti metallici con sfere lucenti sopra e alberi che parevano piccoli broccoli) e aveva deciso di aprire il paracadute a un centinaio di metri da terra. Che per la velocità accumulata con un salto simile, voleva dire rischiarla sul serio la morte. Le urla dell’istruttore che chiedeva il permesso di tirare la cordicella e le sue urla dopo a dargli del cretino di fronte agli altri gli erano rimaste dentro. E lui imparò a pensare ancora più lentamente proprio per questo… per ricordare quelle parole distanziandole sempre di più fino a farle morire, sparire. Il suo doppione era al dottorato quando si rese conto che la sua vita era diventata un contattare il doppione perché gli mandasse un amico che gli sbrigasse qualsiasi cosa: spesa, burocrazia, cambi della gestione telefonica, abbonamenti a piattaforme streaming, tutto. Pagato profumatamente. Pagato benissimo. Piano il doppione era scomparso dalla sua vita, cioè, la sua vita era scomparsa insieme al suo doppione e lui era rimasto a dimagrire nel letto. A volte si ricordava sprazzi di quella tremenda cazziata che gli aveva fatto l’istruttore, l’ultima cazziata che un uomo gli avrebbe mai fatto. Che un essere umano gli avrebbe mai fatto.
Gli amici del doppione impararono presto a stimarlo e apprezzarlo, ma anche poi a umiliarlo e usarlo spregiudicatamente. Lui lasciava fare. Intontito dall’enorme distanza degli oggetti in casa sua aveva preso ad assistere alle feste che avvenivano in casa sua senza che lui cercasse neanche di contrastarle. Erano tutti poveracci. Donne delle pulizie, drogatelli, trovatelli, drogatissimi trovatori di parole improvvisati rapper, la fiera del ridicolo e dell’eccesso. Lui si aggirava senza neanche la forza di commentare, bastava che le cose si tenessero in ordine e nessuno avrebbe saputo nulla: il riccone depresso che si aggirava come un fantasma alle feste sbrilluccicanti di oggetti ostentanti ricchezze mirabolanti – anelli, catene, cerchioni delle macchine rubati utilizzati come cappelli, scomodi certo, ma che roba! – quel riccone depresso che si aggirava in tutto quello doveva vivere, sopravvivere e continuare a non chiamare papà e papà avrebbe dovuto non sospettare di niente. Nessuno di loro sospettava che il padre avrebbe anche potuto sapere di tutto quel casino, avrebbe fatto un cazziatone al figlio per la mancanza di tempra e gli avrebbe detto di sbrigarsela. Poi avrebbe continuato a rifornirlo di quattrini perché gli pesava staccare la spina (la madre sarebbe intervenuta solo in quel caso, cercando di dimostrare, solo in quel caso, di essere una buona madre: se staccava i rubinetti al figlio, potenzialmente poteva farlo anche con lei) e in fondo tutti quei soldi che percepiva, per lui erano caccole. Gli amici del doppione andavano da scaccolatori seriali a educate studentesse delle classi meno agiate che lì ci venivano mal volentieri… Vedevano questo semi-trentenne aggirarsi in mezzo per la casa e scuotevano la testa dicendo fra loro: “se avessi tutti questi soldi e non dovessi lavorare come cameriera e farmi un culo così, col cazzo che avrei questa faccia.” Ma lui non aveva mai lavorato e il suo privilegio era poter essere depresso. Loro a lavoro dovevano sorridere anche quando dentro urlavano e dentro urlavano quasi sempre. “La depressione, è una malattia per ricchi.” Commentò una volta. Fu lì che Vomeker, sentendola, provò un brivido simile al disgusto, per lei, per lui e per tutto quel baccano. Pagò il doppione per trovare qualcuno che facesse sparire tutti gli altri e facesse finire tutte le feste. Silenzio. Nessuno, in giro per casa sua per giorni, settimane, mesi, un anno, forse due. Le telefonate non gli arrivavano. I pensieri si erano rallentati. Questo suo amico del suo doppione della sua vita delle sue cose gli faceva arrivare una donna delle pulizie che lo lavava anche sotto la doccia. Sì, la vita che voleva. In quella vita pensava spesso a quell’ultimo cazziatone. Uno dei cazziatoni più meritati che avesse mai ricevuto. Quello che lo disturbava era il fatto che quello era l’unico cazziatone che aveva ricevuto e che era partito da una reale necessità di fargli capire un concetto e non per il gusto di fargli un cazziatone. Concetto che aveva intuito ma non aveva capito. In quel pantano cerebrale si trovava Vomeker, senza neanche sapere più come compilare un format, un applicativo, fare una domanda. Come fare domanda per l’esercito? Chiamo il tizio che aveva sgomberato tutti gli altri tizi, sarebbe dovuto essere lui a occuparsi della cosa, sarebbe dovuto essere lui ad affrontare la burocrazia dello stato del Govrin per farlo arruolare. Al telefono quello non batté ciglio: era un tizio grasso, brutto, foruncoloso che passava le sue giornate a fare set fotografici e sistemare foto per fotomodelli e fotomodelle, o aspiranti tali. Questo disse: “Sicuro di volerlo fare, guarda che la guerra è roba seria?”… Mica per una questione di umanità, è che se questo moriva, perdeva un bel giro di quattrini. Vomeker aveva intuito il tenore della domanda, annuì con la testa pensando che l’altro potesse vederlo, ma era una chiamata vocale. L’altro rifece la domanda e a quel punto Vomeker disse “hai tutti i documenti tu, tu hai la mia vita in mano, te l’ho detto: arruolami. Paracadutismo.”
Intravide il deserto e la pista oltre una marea nera e tonda di elmetti: il portellone del Bruknaz Ottantasette si era aperto con la sua proverbiale lentezza. Era l’elefante del cielo anche quando si trattava di aprire il portellone. Il suo doppione si stava sposando, suo padre si stava addolcendo, il tizio dei fotografi e fotomodelle riferiva a Vomeker tutto e Vomeker in quel momento ripensava all’ironia della sorte: serviva un altro, al posto suo, perché suo padre dimostrasse un minimo di umanità. Quello che non sapeva era che non era vero. Il tizio dei fotografi e delle fotomodelle si era inventato tutto pur di farlo tornare e il suo doppione gli stava dando una mano perché la carriera universitaria gli andava di merda: titoli, titoli, titoli, ma quando le università sgamavano che lui aveva studiato al posto di un altro (e prima o poi si sapeva) lo spedivano a calci in culo fuori dall’ateneo. Il poverello stava investendo in case e in affari vari con i soldi che percepiva da Vomeker, ma senza successo: Vomeker si era laureato in lingue e questo poverello era un traduttore formidabile ma di affari non ci capiva niente. Il fotografo e il doppione si erano inventati questo fantomatico addolcimento paterno dopo averle studiate tutte… Una pallottola a Vomeker e i due finivano di fare la bella vita o meglio, di fare una vita decente. Non avevano capito che Vomeker non aveva la ben che minima intenzione di tornare e questo era palese.
Ne aveva passate di ogni per arruolarsi: da prima arrivarono a casa sua degli agenti dei servizi generali dei militari e delle forze dell’ordine. Questi gli chiesero com’era possibile che lui si arruolasse se aveva appena deciso di intraprendere un percorso per insegnare all’università letteratura giurmica (poesie e avanguardie nella letteratura rivoluzionaria giurmese, questo era il corso, dodici crediti.) Vomeker spiegò com’era andata la sua vita. Ci mise un po’, era rallentato nella spiegazione, i due agenti seguirono la cosa e, usciti dal cancello della villa, si ripromisero di creare un rapporto fittizio per tenersi la cosa per loro: primo perché la cosa li divertiva (questo qua vuole davvero andare in guerra?), secondo perché, quando questo si sarebbe trovato in difficoltà, loro due erano gli unici a sapere come stavano le cose e avrebbero potuto ricattarlo e lasciarlo a marcire in guerra, dando finalmente credibilità istituzionale al Vomeker falso che si era laureato (per fare ciò dovevano però rovinare la vita, una volta ogni tanto, al Vomeker farlo: erano loro a informare le università della cosa, chiedendo però di tenere tutti all’oscuro, famiglia soprattutto, “la famiglia non vuole neanche sentirne parlare di questa storia, noi siamo i vostri unici referenti” dicevano.) Fu spedito quindi al campo di addestramento di Muder, dove, fuori tempo massimo, si addestrò con ventenni, correndo come un ventenne, sparò con ventenni, mirando come un ventenne, montò fucili con i ventenni, pulendo la canna come un ventenne, tirando fuori (e lì perse il conto dei cazziatoni che prese) una tempra che… Ma l’aveva davvero tirata fuori la tempra? Chissà perché, sì, di cazziatoni ne prendeva ma mai quanto gli altri, doveva essere trattato come gli altri, ma nessuno lo trattava come tale, doveva imparare come gli altri, ma nessuno gli insegnava con la stessa severità con cui insegnavano agli altri. I due agenti si erano inventati che era figlio di un ministro in incognito. Una specie di protocollo di protezione testimoni a cui tutti quelli più in basso di quei due avevano creduto per pigrizia e tutti quelli più in alto di quei due avevano creduto per menefreghismo. Insomma, questo era finito a fare, fuori tempo massimo, il militare e con un trattamento di favore “che non si sfianchi!”… Tutto gli pareva strano e un po’ si era svegliato, ma la distanza enorme degli oggetti in casa sua lo aveva abituato alla pigrizia mentale e quindi non si fece troppe domande.
Intravide il deserto e la pista oltre una marea nera e tonda di elmetti e seguì gli uomini di fronte a sé, marciando piano. Lui voleva arrivare fino in fondo alla cosa, voleva davvero scoprire la crudezza della vita. Questo era il suo ultimo privilegio. Voleva soffrire come un povero, era il suo ultimo brivido. Scoprì con non poco stupore che era in mezzo a una valanga di poveracci di prim’ordine: pizzaioli sfiniti, riders, studenti esauriti, venditori di panini, bagnini, camerieri, tutti giovanissimi, tutti ingolositi dal lauto pasto statale formato razione militare che veniva sganciato nei loro conti a fine mese: quattromila evr. Quattromila! Lui alla loro età li spendeva in un minuto, una volta aveva fatto il calcolo: un minuto e quindici. E questi erano venuti lì per necessità. Preferivano l’esercito, anche perché era più emozionante, più romantico, più… Questo dicevano i sessanta ragazzi scesi e dispersi per il campo in mezzo alle brulle montagne gialle sotto a quel cielo rosso per i fumi e solfiti. Lì sì che l’ossigeno costava per davvero, spesso dovevi respirare con la bombola ed erano altri chili da portare addosso… Ma così era più poetico, no?!
Vomeker scoprì con rammarico che la fantomatica morte di cui parlavano tutti in lungo e in largo che colpiva i militari con autobombe, i fantomatici elicotteri tirati giù a missili Bifnaz dai cattivissimi terroristi, erano un mucchio di segate. A volte, quando ti andava bene, ti capitava di vedere un compagno saltare per aria su una mina che loro stessi avevano messo tre mesi prima lì nel suolo (ma le mine antiuomo non erano vietate? Li aveva studiati per davvero i due esami per essere un buon militare ed evitare di sparare addosso alla gente, diciotto crediti su storia dei diritti dell’uomo. Sì, erano vietate, ma ormai ce le avevano, che fanno? Le buttano?) O, se ti andava ancora meglio, un cecchino sui crepacci ti spappolava la testa di un compagno a due metri di distanza, ma spesso il divertimento era zero perché i fucili di quei pastori improvvisatisi partigiani e terroristi erano sempre delle ciofeche mentre i loro elmetti erano all’ultima generazione. Se ti andava male, invece, a morire eri tu… Ma le poche volte che accadeva, non te ne accorgevi neanche.
“Siamo venuti a occupare suolo!” Chiosò un veterano di fronte ai novellini. Non c’era quindi nessuna motivazione valida per essere lì? Be’, potevano sparare, muovere carri-armati e far svolazzare elicotteri e questo era molto fico. Nei mesi successivi, tutto quello che non aveva imparato al campo di addestramento, Vomeker lo imparò lì. Vomeker si scoprì meno scemo di quel che pensava, Vomeker scoprì che per diventare un essere umano aveva dovuto allontanarsi, fisicamente, il più possibile dal suo conto in banca andando ad ammazzare poveracci dall’altra parte del pianeta. Solo che non gli era ancora mai capitato e la cosa, dopo aver imparato a pilotare carri-armati, aver imparato a pilotare elicotteri, finalmente dopo aver imparato a sparare per davvero, iniziava a rodergli. Quei due agenti che gli coprivano il culo pensavano sarebbe tornato indietro molto presto, scoprendo di avere la mani legate: la loro giurisdizione fuori dallo stato del Govrin era annullata da una serie di leggi che circoscrivevano il loro operato e la loro influenza oltre l’oceano, in patria, dove erano rimasti, ma sapevano che non appena Vomeker avrebbe voluto riavere la sua vita fuori dalla guerra, lì, sarebbero iniziati i giochi. Si preoccuparono presto e si affidarono anche loro al fotografo e al doppione, cercando di montare ancora di più la storia di una vita felice che il doppione viveva: il doppione ora aveva un figlio e aveva scoperto una grande relazione con il fratello (che nel frattempo, né Vomeker, né i due agenti, né il doppione, né il fotografo sapevano essere morto in seguito a un incontro ravvicinato con una piovra in un’escursione subacquea nelle isole Fes). Ma tutti rimasero straniti, neanche quello smosse Vomeker. Neanche quello spinse di un millimetro la sua posizione. Vomeker non rispose, lui voleva stare là, Vomeker voleva pilotare gli elicotteri e rischiare la vita e giorno dopo giorno lo faceva sempre di più.
Tutto cambiò quando finalmente vide in prima persona un attacco. Un bambino si parò davanti ai militari che rincasavano e aveva un mitra in mano. Puntarono tutti il fucile ma questo ebbe la prontezza di puntare e sparare. Che suono strano fecero i colpi nelle sue orecchie quando capì che erano colpi indirizzati a lui. Tutto cambiò. Non ebbe il tempo di sparare, lo ammazzò prima un altro. E si rese conto che era quello che voleva fare. Non era provare dolore, ciò che voleva, il dolore del poveraccio che si arruola, non era saltare in aria, ma era far saltare in aria. Capì lì che forse più che autolesionista, era davvero sadico. Fino a quel momento lui aveva voluto sparare a qualcuno per il brivido in sé, ma ora voleva sparare a qualcuno per togliergli la vita. Ecco, ecco qualcosa che i soldi non potevano comprare: uccidere con le proprie mani. In infermeria pensò alla scena e quello che aveva sparato con più prontezza divenne il suo nuovo amico all’interno del campo.
Ne aveva avuti molti: un aspirante cantante, un aspirante regista, un aspirante fotografo, un aspirante pornoattore, un aspirante matematico, un aspirante professore di scienze del liceo (non aveva grandi pretese), un aspirante professore di letteratura straniera (quale non lo sapeva neanche lui), un aspirante generale. Erano tutti figli di gente che non sapeva come pagare il mutuo e che di possibilità di diventare quel che volevano diventare ne avevano meno di zero. Si stancava presto di ognuno di loro: loro non amavano pulire il fucile come amava lui, non erano veloci a rispondere al sull’attenti come lui, non facevano il letto come lui, lui era meglio di loro in tutto, anche a sparare ormai. Lui si vantava spesso della sua mira, della conoscenza delle armi. “Mio fratello passa tempo con suo figlio, io passo il tempo con il mio fucile, ve lo dirò, non c’è differenza!” Lui avrebbe voluto sparare a quel ragazzino, ma qualcuno lo aveva bruciato sul tempo. Era stato lento. Chi era quel povero stronzo?!
Era uno nuovo? No, era un veterano, ma veniva da un altro campo. Tufe aveva girato più centri militari in Oriente di chiunque altro. Tufe era uno problematico ma nessuno sapeva perché: era così gentile, così affabile, così tosto.
“Sei stato un grande l’altro giorno.” Gli disse Vomeker di fronte a una mitragliatrice montata su un elicottero. Oh, non se ne stava fermo un secondo, Tufe la stava lucidando e non c’era bisogno di farlo, era già lucida!
Parlarono per ore, si studiarono forse, ma neanche troppo. Tufe era figlio di poveracci e aveva sempre voluto fare una cosa sola: fare il militare. Aveva lavorato in ogni dove e ogni lavoro gli aveva fatto schifo. Aveva rischiato la vita in cantiere, aveva rischiato la vita a fare il saldatore, aveva lavorato in un call-centre e la vita l’aveva rischiata il suo capo perché lui, boxer di professione, aveva rischiato di mettergli le mani addosso. E gliele aveva messe. Ma lo avevano frenato. Non sapeva come mai non avesse mai davvero voluto arruolarsi, dovette scegliere fra galera ed esercito però e lì fu il momento in cui prese quella via. Quella via, la via dell’esercito non la voleva percorrere per una grande paura, in realtà, si confidò, una paura che non aveva detto a nessuno.
“Io avevo paura di venire qui e scoprire che non era come te la raccontavano in televisione. Che non era morte, sangue, dolore, morte ancora, elicotteri sventrati e cazzi e mazzi così.”
Vomeker scosse la testa. “Ma non è così, cioè, non succede niente… come mai sei così felice, allora?” Tufe si fermò, aveva il panno in mano, sorrideva e scuoteva la testa. “Sai che faccio io? Io mi prendo delle lunghe pause e vado a fare delle escursioni. E poi seguo la gente della zona… Vieni con me stasera? Mi piaci, mi fido di te… Sento un qualcosa, vieni con me, vieni con me stasera!”
Vomeker gli sorrise e chiese un’escursione notturna, come aveva fatto Tufe. I due si ritrovarono fuori dal campo e presero a marciare. Addosso avevano una borraccia da ottocento erv, primissimo ordine, una visiera da due mila, un casco da quattromila, un fucile da ottomila l’uno, gli stivali con cui scalarono le rocce valevano duecento erv, i guanti con cui si arrampicarono per raggiungere il sentiero una novantina l’uno, la razione che mangiarono a metà percorso aveva un primo che valeva una ventina di erv, un secondo che ne valeva venticinque circa, una bibita energizzante da tre erv, discussero anche sul prezzo delle granate a frammentazione, perché di questo si erano messi a parlare in fondo, per passare il tempo, e conclusero discutendo del prezzo delle cinture. Non era più quanto costassero le cose a loro, era più quanto costava all’esercito. Avrebbero potuto risparmiare? Non potevano più parlarne. Si accucciarono. Vomeker ebbe l’onore, tirò fuori il fucile. Puntò. Tutti dicevano che Tufe era stato trasferito in ogni dove perché ammazzava civili, Vomeker sorrideva godendo di quel prezioso segreto. Era vero. Tufe glielo disse nell’orecchio: studiava proprio come colpire la gente nel punto giusto, al momento giusto. Lo divertiva colpire un corpo a grande distanza. Da quella via, quella notte, sarebbe passato un povero scemo che lui aveva preso di mira tempo prima, uno con i suoi sacchi di chissà che e il mulo. A volte veniva in furgone ma quello ogni tre per due non funzionava. Erano già tre sere che passava sempre da quella strada sterrata che loro guardavano da dietro le rocce con il mulo.
“Eccolo.” Disse Tufe. Vomeker lo vide arrivare da laggiù, lento come erano lenti i suoi pensieri, prima che si svegliasse, di nuovo, dal torpore. Aveva riacquistato quella vivacità che aveva da ragazzino, invece che millantare il lusso, avrebbe millantato i morti. Trovava in questo una sorta di coerenza che lo entusiasmava. Era al suo primo morto.
“Mi raccomando eh…” Disse Tufe.
“Sai che quando facevo paracadutismo, c’era sempre una frasetta del cazzo che usavamo prima di lanciarci, per darci forza?” Furono le parole di Vomeker.
“No… Ne hai una per questa occasione però, lo sento.” Disse Tufe tenendo d’occhio l’uomo e il mulo e il sacco pesante che il mulo portava sul groppone.
“Credo di sì, me l’ha suggerita quel sacco pesante.”
“Dai dilla!” Vomeker era pronto, l’uomo stava per transitare nel punto giusto, il dito era pronto, il grilletto era fermo, il cielo era rosso, tutto era perfetto, Tufe ascoltava. Vomeker si sentì felice.
“Almeno da morto non lavori.” Vomeker fece fuoco. Fu l’ultima volta in vita sua in cui gli capitò di discutere di soldi con una, seppur vaga, intenzione di parlarne.
Time-lapse a cura di Anja Aurora Mazza