Il ritratto della settimana è dedicato a Carlo Collodi (1826-1890).
Non possiamo parlare di letteratura per l’infanzia senza nominare il creatore del burattino più famoso del mondo. In realtà il nome esatto è Carlo Lorenzini. Collodi è il paese dove passò l’infanzia.
I suoi genitori lavoravano per i marchesi Ginori (quelli dei sanitari), suo padre faceva cuoco e la madre la sarta. Carlo fu il primo di dieci figli e fin da ragazzino dimostrò un carattere vivace, insubordinato e un tantino allergico alle regole. La famiglia, quindi, lo avviò agli studi ecclesiastici magari sperando di dargli una calmata. A sostenere i costi di istruzione furono proprio i Ginori i quali oltre a essere fini imprenditori, erano pure un po’ mecenati, come dimostra il sostegno dato a tutta questa numerosa famiglia. Le vacanze estive, Carlo le passava a Collodi dai parenti materni. L’escamotage per fare di lui un prete, però, non funzionò, al contrario s’appassionò ai libri e alla letteratura.
A diciott’anni iniziò a lavorare nella famosa libreria Piatti di Firenze, e qui ebbe il tempo di assimilare le nuove idee di libertà civile e di indipendenza nazionale che si andavano imponendo assieme all’ideale mazziniano. Nel frattempo recensiva libri e scriveva su L’Italia Musicale, uno dei periodici specializzati più importanti dell’epoca. Qui, il nostro, scopre il suo talento letterario non solo nel consigliare libri ma anche nell’osservare e descrivere con simpatica ironia, gli aspetti più bizzarri e talvolta spiritosi della situazione sociale e politica toscana, fatta di intrighi, storielle e battibecchi. I suoi articoli iniziarono a comparire anche su altre riviste e lui ottenne persino una dispensa per poter leggere testi messi all’indice. In breve diventò uno degli intellettuali più letti del momento.
Insomma, un vero booktoker. Ma sempre in bolletta. Pare che ad aiutarlo economicamente fosse suo fratello Paolo, che stava facendo una gran carriera nella fabbrica Ginori dove poi, sarebbe diventato direttore. I due fratelli erano molto uniti ma molto diversi. Le cronache parlano di Paolo come di un personaggio importante dedito al lavoro e ad una vita lontana dai riflettori, tutto l’opposto di quello scapestrato fratello scrittore che dalla sua aveva la simpatia e la creatività che univa ad una scarsissima voglia di sporcarsi le mani se non di inchiostro. Carlo aveva anche un debole per il gioco d’azzardo, il bicchiere (pieno) e le belle donne, anche se non si sposò mai. Però era un patriota e a 22 anni partì volontario nella prima Guerra d’Indipendenza.
Al ritorno si fermò a Firenze con l’idea di fondare una rivista: Il Lampione, con la quale si prefiggeva di “far lume a chi brancolava nelle tenebre” soprattutto dopo la (temporanea) restaurazione granducale. A crederci tantissimo, tuttavia, era solo lui. La rivista non poteva che avere natura satirica, forse troppo e tra pochi alti (piaceva ai lettori) e molti bassi (non piaceva al governo), le tolsero la luce per undici anni.
Per il povero Carlo, e per chi gli pagava i conti, iniziò un periodo duro e lui, per guadagnarsi da vivere, iniziò a viaggiare e a scrivere per varie testate giornalistiche. Questo lo portò a collaborare con personaggi del calibro di Ippolito Nievo. Scriveva di tutto e su qualsiasi argomento, anche teatro e musica. E pure con una bella competenza, tanto che nel 1853 fondò un altro giornale: La Scaramuccia che diventò un punto di riferimento in fatto di spettacolo e teatro.
Ma è nel 1856 che apparve per la prima volta lo pseudonimo Carlo Collodi. Visti i precedenti, il nostro aveva così firmato (per precauzione forse) un articolo apparso sul giornale politico e satirico La Lente. Il nome poi se lo tenne anche perché decise che era più remunerativo e divertente mostrare e denunciare le contraddizioni della società attraverso… il teatro. Di lì a breve mette in scena Gli amici di casa che ha per protagonisti tre amici fannulloni e scrocconi che tra vanterie e maldicenze, causano dissapori tra il loro ospite, il conte Florestano e sua moglie. Collodi, con questo, affronta in modo sarcastico il tema dei falsi amici, delle dicerie e di come queste minino la fiducia tra le persone care. Un po’ quello che succede a Pinocchio quando si fida del Gatto e della Volpe.
Il copione ebbe successo e ne seguirono altri. Da Firenze a Livorno, Guida storico-umoristica, e Un romanzo in vapore, in quest’ultimo, con un brio tutto toscano, Collodi racconta dei pionieri del treno e di come tutto stesse cambiando, compresa la concezione del tempo.
E il mondo stava cambiando per davvero. Scoppiò la seconda guerra di Indipendenza, e vuoi non partire? Tuttavia al ritorno, gli ideali di Collodi si erano un po’ dissolti e lui tornò amareggiato e disilluso. Questo non ne fece un nostalgico dell’Ancien Régime, semplicemente non gli piacevano i risultati di questa Italia fatta da “buzzurri” (parole sue) ed era quanto mai insofferente alla meschinità dell’uomo verso il nuovo assetto e pure verso quegli ideali illuministici che erano stati alla base della rivoluzione.
“Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall’idea di Mazzini all’Ippogrifo dell’Ariosto… Che il cielo mi perdoni, ma l’anarchia regna nello Zodiaco…”
Col cinismo nel cuore, Collodi andò a vivere dalla madre, cui era legatissimo, e iniziò a lavorare – su commissione governativa – alla stesura di un nuovo dizionario della lingua italiana e alla traduzione di fiabe, soprattutto francesi. Lui non solo tradusse me le personalizzò aggiungendo qua e là del suo:
“Nel voltare in italiano i Racconti delle fate m’ingegnai, per quanto era in me, di serbarmi fedele al testo francese. Parafrasarli a mano libera mi sarebbe parso un mezzo sacrilegio. Ad ogni modo, qua e là mi feci lecite alcune leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire: e questo ho voluto notare qui in principio, a scanso di commenti, di atti subitanei di stupefazione e di scrupoli grammaticali o di vocabolario.
Peccato confessato, mezzo perdonato: e così sia.”
Come ho detto, Collodi era disincantato e se fino a poco prima il suo pubblico era “adulto e colto” ora che lo avevano deluso con le loro iniquità e piccolezze, decise di spendere le sue fatiche verso i più giovani che ancora possedevano quell’umanità aperta e fresca.
Da qui la nascita delle sue novelle di stampo pedagogico: Giannettino (1877) e poi Minuzzolo (1878), molto apprezzati e diffusi nella neonata scuola dell’obbligo italiana, nonché precursori di Pinocchio. Quest’ultimo vide la luce sul Giornale dei bambini nel 1881. La storia venne scritta in quindici uscite (non sempre regolari) e terminava con l’impiccagione del burattino da parte del Gatto e della Volpe. Ma tali furono le proteste che Collodi dovette rimettere mano alla storia, un po’ come fanno gli sceneggiatori di Beautiful, e cambiare il finale al povero Pinocchio. Qualcuno asserisce che del burattino Collodi non ne poteva più, tuttavia la necessità di pagare i numerosi debiti di gioco, lo convinse a trasformare il racconto in un romanzo. Vuoi il linguaggio fresco e asciutto, vuoi l’originalità della storia, la storia ebbe un successo planetario. Tutt’ora è il libro italiano più tradotto al mondo.
“C’era una volta… Un re! Diranno i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno…”
Il resto è storia.