Il ritratto della settimana è dedicato a Ennio Flaiano (1910-1972)
Sono in pochi a conoscere questo giornalista, fine umorista, scrittore e sceneggiatore che ha avuto il pregio di lavorare con i grandi del cinema come Fellini, Monicelli, Rossellini. Eppure è stata una delle penne più importanti del ‘900 capaci di captare e descrivere in modo magistrale l’italianità, la natura dell’italiano e dell’Italia. Leggendolo nessuno noterà la differenza della nostra società rimasta pressoché immutata dagli anni ’50. Flaiano è stato definito: ironico, sarcastico, amaro, cinico, elegante, ma anche un sognatore, dalla prosa magistrale anche quando si tratta di scrivere di sentimenti grossolani, gretti e disonesti. Impossibile da inquadrare, riuscì a sopravvivere senza mai schierarsi e rimanendo sempre coerente col suo stile. Era un anti. Antiprogressista, antimarxista e antiborghese. In un certo senso, rappresentò piuttosto bene, la generazione del boom economico.
Ma andiamo con ordine.
Nacque a Pescara, a due passi dalla casa di D’Annunzio ma passò l’infanzia a girovagare tra le Marche e l’Abruzzo manco fosse al seguito del circo Orfei, finché non giunse a Roma, peraltro (e del tutto fortuitamente) con i fascisti che nel 1922 andavano giusto giusto a fare una marcetta nella capitale.
Si diplomò al liceo artistico con l’idea di proseguire gli studi presso la facoltà di Architettura, ma non era per lui, sicché per sbarcare il lunario iniziò a collaborare con la rivista L’Italia Letteraria e a recensire libri; si vede che ai tempi era ancora un lavoro (ben) pagato. Ma sono anni di grandi cambiamenti per l’Italia che vuole anche lei imporsi in Africa e al richiamo, il nostro, rispose immediatamente. Dal 1933-1936 partecipò alla Guerra d’Etiopia che gli fornirà materiale prezioso per i suoi libri.
Tornato in patria riprese a collaborare con settimanali e riviste. Lo stile ironico e tagliente dei suoi articoli non tardò a farsi notare, soprattutto quando si trattava di descrivere la realtà storica e sociale del momento. Compito non proprio semplice, il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno era alto. Eppure Flaiano anziché urlare la corruzione imperante e le contraddizioni della politica italiana ai quattro venti o inneggiare pericolosi “J’accuse” preferì molto saggiamente intingere la penna nella satira anche se era una satira un filo amara. Usava i suoi articoli come pretesto per far emergere una larga parte di quell’Italia contraria al fascismo ma che ne rimaneva comunque succube.
Nonostante la disillusione del regime, Flaiano era un sognatore.
“Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole”
Sono anche gli anni dell’Antico Caffè Greco, quando in via Condotti potevi prendere un caffè e trovarti accanto Aldo Palazzeschi, Carlo Levi o Vincenzo Cardarelli. Oggi, bene che ti va incontri Blanco… Pareva che i grandi intellettuali risiedessero tutti nella capitale, eppure Flaiano aveva un rapporto strano con Roma. Lui stesso ebbe a scrivere:
Roma è la mia vera città. Talvolta posso odiarla, soprattutto da quando è diventata l’enorme garage del ceto più medio d’Italia. Ma Roma è inconoscibile, si rivela col tempo e non del tutto (…) A Roma, da giovane, ho trascorso anni in giro, la notte, col poeta Cardarelli e Guglielmo Santangelo, due maestri di indignazione e di vita. A Roma ho conosciuto i primi scrittori, i primi artisti, i giovani che facevano la fame, le donne che ci facevano compagnia.
Si sposò nel 1940, due anni dopo nacque la figlia Luisa cui, ancora in fasce, venne diagnosticata una forma di encefalopatia che di fatto la renderà fortemente disabile. Alla figlia e alla sua condizione, Flaiano dedicherà molte memorabili pagine ne La valigia delle Indie.Intanto il suo nome iniziò a circolare grazie soprattutto alla sua attività di critico teatrale e cinematografico. Ma il salto della quaglia lo fece nel 1946 quando a Milano iniziò a scrivere il suo unico romanzo: Tempo di uccidere, fortemente voluto dall’editore Longanesi il quale lo aveva a lungo corteggiato affinché gli desse in tempi brevi, qualcosa da pubblicare. Praticamente il sogno di ogni scrittore.
Il romanzo è ambientato durante la guerra d’Etiopia e narra dell’omicidio di una etiope da parte di un ufficiale dell’esercito italiano. L’assassino, però, scopre che la ragazza aveva la lebbra e inizia per lui un mea culpa tra il mistico e il grottesco. Il romanzo non ebbe successo di pubblico, però nel 1947 vinse il premio Strega, che come consolazione non è male. Ma di proseguire su questa strada Flaiano non ne volle proprio sapere.
“Tempo di uccidere” vinse un premio, la critica lo accolse tiepidamente. Un critico scrisse che mi aspettava alla seconda prova. Sta ancora aspettando.
È il cinema, quello destinato a diventare il suo grande l’amore. Scrisse tanto, tantissimo e su quasi tutte le riviste di cinema di quegli anni, non solo, ma firmò la collaborazione con decine di sceneggiature tra cui La Dolce Vita, La strada e 8 e ½ di Fellini.
Nel 1959 pubblicò una raccolta di racconti, Diario notturno, Una e una notte, e diverse opere teatrali: La guerra spiegata ai poveri, la donna nell’armadio e la commedia: Un marziano a Roma, l’unica cosa che gli piacque e che andò male. Anche se poi, le avventure dell’alieno che sbarca a Roma e che va pure dal Papa, divenne film e sceneggiato TV.Il mio preferito rimane Diario notturno, una raccolta dove Flaiano ne ha per tutti. Ricchi, poveri, intellettuali o presunti tali, illusi, preti e sognatori. Tutta la sua filosofia è espressa qui. Sembra quasi gentile nel raccontare il mondo e la sua spietatezza, il cinismo del potere, il qualunquismo italiano e quello di chi osserva ma non partecipa alla vita civile, perché i “guai è meglio evitarli” oppure “ma chi me lo fa fare?”. Sono pagine amare, in cui è perfettamente descritto il malessere degli italiani che anziché ribellarsi, accettano. Tutto.
Colpisce, a distanza di decenni, l’umorismo sottile e disincantato – a tratti malinconico – con cui Flaiano racconta la nostra società fatta di rapporti umani, di passioni, di impegni ma anche (e soprattutto) di tanta voglia di scansare i problemi o di non affrontarli perché è più comodo stare in poltrona a guardare la televisione.
Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV.
Sempre lì siamo. Eppure il suo pessimismo non è mai ridondante o pesante. Qualcuno ha definito la sua prosa come un caffè: amara e scottante, ristretta, aromatica e un po’ eccitante; una delizia breve.
Insomma, bruciante come la verità.