Rodrigo Sorogoyen gira un western rurale ambientato in Galizia dove il piano sequenza fa da padrone e la suspense cerca di dar forma alla bestialità
Non ci sono scene particolarmente conturbanti in As Bestas – La terra della discordia. È come se tutto ciò che dovrebbe implodere restasse sottopelle, un film dove ha più importanza il come una scena è stata girata piuttosto che il dare visivamente importanza a che cosa induca concretamente quel senso di ansia ipertesa che agita lo spettatore dall’inizio alla fine della storia.
Un racconto che tocca in più punti vette di autentica suspense procedendo per elisioni, stimolando l’adrenalina dello spettatore più con il non-visto anziché spiazzarlo con immagini perturbanti, innescando reazioni che non riescono mai completamente a detonare.
Rodrigo Sorogoyen, uno dei registi spagnoli più talentuosi della sua generazione, cerca di dare forma alla minaccia, alla bestialità, alla spietatezza della natura umana attraverso un film che suona come un saggio antropologico condotto sulle pulsioni più archetipiche dell’uomo: il possesso, la conquista, l’odio, la vendetta.
E lo fa raccontando la storia di Antoine e Olga, coniugi francesi che si spingono fin sulle montagne della Galizia per ritirarsi e dedicarsi all’agricoltura sostenibile e alla ristrutturazione di alcuni cottage allo scopo di richiamare un turismo green in quel luogo ameno quanto abbandonato da Dio. Una città fantasma popolata solo da aloitadores che si spaccano la schiena nei campi, che imprecano schiacciati dalla fatica, frustrati dalla condizione di povertà, contadini che “puzzano di merda”, abbruttiti dalla vita e rifiutati persino dalle prostitute (come racconta Xen in una delle scene più tese del film). Bifolchi che avevano visto una possibilità di riscatto nella società norvegese che avrebbe voluto impiantare delle pale eoliche per i campi della loro piccola cittadina, prontamente rifiutate da Antoine che vi aveva visto una grave minaccia ecologica.
La frustrazione emerge, la rabbia soffocata inizia a prevalere, l’odio xenofobo – ricordiamo che i due protagonisti sono gli unici francesi in una terra che per anni e tradizione è stata solo degli aloitadores – cerca di deflagrare nei momenti più inaspettati: prima Antoine trova le sedie del suo atrio bagnate d’urina; più tardi i suoi due vicini ostruiscono la strada per raggiungere casa sua, venendogli incontro armati di fucile, poi vengono ritrovate due batterie nel pozzo che fornisce acqua agli impianti d’irrigazione del suo orto, finendo per avvelenare col piombo le piantagioni.
Risentimento che striscia, ostilità che cominciano a prender forma, tensione che si alza alle stelle, soprattutto per lo spettatore che viene catapultato in quello che rimane un film a metà tra un western rurale e un thriller ad alta carica pulsionale, molto vicino a Un tranquillo weekend di paura (J.Boorman,) o Cane di paglia (S. Packinpah), con la differenza già preannunciata che la tensione che costruisce il regista non ha mai modo di esplodere, ma rimane ramificata tra i dialoghi e gli sguardi dei personaggi.
Ed ogni momento in cui Sorogoyen ha modo di vanificare questo tentativo della suspense di deflagrare con tutta la sua forza viene girato magistralmente con piani sequenza asciuttissimi, interminabili, mai interrotti dal cut di montaggio.
Si sa, Sorogoyen è un virtuoso del piano sequenza fin dai tempi dalla ripresa che “cade” dalla finestra di Che Dio ci perdoni (2016) o il più recente piano sequenza iniziale di Madre (2019), ma qui viene stressato fino alle sue massime possibilità espressive fungendo da vera e propria base d’appoggio per tutte le scene madri: penso alla scena di dialogo tra Antoine e Xen all’interno del bar dove sono soliti incontrarsi o al confronto tra Olga e Marie, tecnicamente perfetta da ogni punto di vista – oltre che ottimamente interpretata-. Sorogoyen possiede una rara padronanza dei tempi narrativi risolti con l’applicazione virtuosistica ma mai ideologica o astratta del piano sequenza, così da cercare di vincere la complessa sfida formale del conferire aspetto al pericolo, accreditando al contempo le ragioni sia dei coniugi francesi che dei contadini galiziani.
Come nelle sue precedenti prove autoriali, ancora una volta Sorogoyen si dimostra un regista dalle trame imprevedibili. In As Bestas le carte in tavola vengono rimescolate dopo quasi più di metà del film, dopo un’ellissi imprevedibile, che porta in primo piano il personaggio di Olga, secondario durante tutta la prima parte del film, in grado di offrire un punto di vista differente sulla vicenda. Se Antoine cercava, col suo metodo disordinato e comprensibilmente accanito, di rispondere alle ingiustizie subite con la legge del taglione da parte sua Olga incarna l’attenzione, l’attesa, il lungo corso che la verità deve attraversare per poter emergere, conferendo così spessore e profondità al personaggio di Marina Fois.
As Bestas – La terra della discordia è un film che rigetta l’astrusità, integralista nella sua volontà di lasciare filmicamente latenti gli istinti umani nati dall’opposizione secolare di due visioni diverse di natura, incarnate dai due fratelli contadini e i due coniugi francesi, e che rimarca la presenza di un cinema ancora capace di guardare il fondo dell’abisso – o di spingere la testa nella bocca del leone, se si preferisce una metafora più bestiale – così da farne affiorare i moti più reconditi e nascosti facenti parte da sempre dell’animo umano.
Un film imperdibile, necessario, improrogabile, tra le proposte imprescindibili di questa stagione cinematografica.