Elizabeth Banks si rimette in gioco con uno scandaloso horror-comico-demenziale di estrema intelligenza capace di suscitare un piacere da Drive in
L’idea di una banda di spacciatori che perde quintali di cocaina in una riserva della Georgia, trovati e sniffati da un orso nero che inizia a perdere il controllo massacrando chiunque si pari lungo il suo cammino, è qualcosa che sarebbe potuto venire in mente a Fred Dekker o Lee Frost. È per questo che l’intuizione di Jimmy Warden, sceneggiatore del film, e della regista Elizabeth Banks è tanto stupida quanto geniale sin da principio.
Banks, reduce del flop Charlie’s Angels (2019), torna dietro la macchina da presa con un film che ha l’unico scopo di essere una sfida.
Cocainorso, fin dal titolo, è una provocazione a chi pensa che ci sia un solo tipo di cinema, è uno smacco a chiunque voglia limitarsi a vedere le stesse cose e ad ascoltare le stesse storie, è un’operazione – ma qui scado in un’iperbole! – squisitamente e scandalosamente duchampiana. Utilizzo il termine “scandalo” nel suo senso etimologico di “ostacolo”: si, Cocainorso è un ostacolo per tutti quelli che sono fermamente convinti che il cinema si possa e si debba fare in un unico modo, un modo soggetto a restrizioni e freni inibitori, confezionato per spettatori che devono ricondurre sempre ciò che vedono a qualcosa di accettabile e in linea che le strutture consunte di un modo di pensare vessato dal raziocinio.
Cocainorso invece trascende i contenuti e si getta a capofitto nel prolifico oceano del non-sense, piroetta sulle strutture immateriali di una storia impossibile – nonostante il film ripeta più volte il tagline “Ispirato a fatti realmente accaduti” -, rimbalza su un montaggio che sembra curato con i piedi.
Tutto quello che viene fatto vedere nel film non può in alcun modo essere ridotto ad un modo di guardare “addomesticato” e quindi non è un modo di narrare convenzionale quello di cui si appropria la regista, ma l’obbiettivo del film, probabilmente inconscio, è semmai quello di spaziare in situazioni narrative che non hanno in realtà nulla da raccontare. Persino l’orso, che dovrebbe essere al centro del racconto, appare molto meno di quanto si pensi.
Eppure alcune sequenze, come la morte del ranger (Margo Martindale) o l’inseguimento dell’ambulanza, sono tanto memorabili quanto intelligenti per l’apparente disordine con le quali sono state girate, e quando il film raggiunge momenti di esplicito splatter ben si comprende come non si tratti sprovvedutezza ma di autentica e divertita spregiudicatezza.
Elizabeth Banks guarda il suo film come a qualcosa non di estremamente serio ma di raffinatamente curioso, come fosse uno strano oggetto inclassificabile nella grande wunderkammer del cinema americano contemporaneo, concependo un lungometraggio che trova la sua forza nei momenti più insensati e demenziali, giocando a ribasso con un cast per nulla assortito e nel quale fa la sua ultima comparsa il recentemente compianto Ray Liotta, famoso per la parte di Henry Hill in Quei Bravi Ragazzi (M. Scorsese, 1990).
E la presenza di Liotta in questo film astruso e disinvolto ha tutto il sapore di un sberleffo, di una consapevole ultima smorfia, di un epitaffio genuinamente circense, tanto che quando lo si vede nell’ultima scena, a terra, mentre due cuccioli di orso strafatti di cocaina divorano le sue budella vorresti alzarti in sala e gridare “Merdre!” come Ubu nell’omonimo testo teatrale di Alfred Jarry tanto è il grado di assurdo e macabro umorismo sbracato che sembra trapelare dal film.
Chi si è indignato per la parte minima che è stata riservata al personaggio di Liotta intimando persino alla regista di tornare a fare l’attrice e abbandonare la regia dimostra di non aver compreso la sottile operazione che è stata condotta in questo lavoro se si tiene a mente che “fare un film “stupido” è meno facile di quanto comunemente si possa pensare” (Giona A. Nazzaro, FilmTv).
Elizabeth Banks ci restituisce invece un film in grado di suscitare le emozioni più basiche innescate da un tipo di piacere che può essere ispirato solo da un cinema senza sovrastrutture, un edonismo da drive in, un compiacimento per spettatori-sperimentatori. Un capolavoro? Per niente. Cinema? Probabilmente sì, e di quello più disinibito e privo di pregiudizi, un cinema probabile forse per spettatori impossibili e nel quale può rinnovarsi una certa idea di entusiasmata cinefilia deprivata delle ingombranti scorie della bigia nostalgia.