Regia di Nanni Moretti con Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando, Valentina Romani, Barbora Bobulova, Mathieu Amalric, Blu Yoshimi, Jerzy Stuhr

Il cinema come autoanalisi, le ossessioni che raffreddano l’eros e gli amori, le occasioni perse della sinistra italiana. Nanni Moretti torna ai suoi topoi preferiti con un film straordinario in concorso a Cannes 76

Nanni Moretti ormai fa parte di quel gruppo di soggetti che Alberto Arbasino soleva chiamare “venerati maestri”, un club ormai sempre più ristretto soprattutto in territorio nostrano. Dopo il passo di lato compiuto con Tre Piani (2019), tratto dall’omonimo romanzo di Eshkol Nevo, Moretti torna su stili e contenuti a lui cari e confeziona un film che pare la naturale prosecuzione di Sogni d’oro (1981).

Il Sol dell’Avvenire, chiacchieratissimo fin dal lancio del trailer, è un concentrato di ossessioni morettiane fin dalla trama: Giovanni (Nanni Moretti) è un regista che sta portando a termine un difficoltoso lungometraggio sui fatti d’Ungheria del 1956 e su come questi abbiano inciso sulle sorti del Partito Comunista Italiano. Il lavoro procede a rilento tra vari problemi personali (la moglie, Margherita Buy, vorrebbe lasciarlo), professionali (l’attrice interpretata da Barbora Bobulova ha il mito di John Cassavettes e rovina le scene improvvisando o interpretando la sceneggiatura a modo suo) ed economici (il produttore, uno spassoso Mathieu Amalric, ha ipotecato persino la casa pur di racimolare i capitali per il film).

Ogni situazione costruita dalla sceneggiatura di Moretti stesso insieme a Francesco Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella è utile a tirare in ballo un topos del cinema del regista romano, tra canzoni italiane, tiri al pallone, danze improvvisate e passione per i dolci.

Il punto fondamentale del film è un altro però: quale cinema si vuole rappresentare? Nanni Moretti, all’ormai rispettabile età di 69 anni, si toglie qualche sassolino nella scarpa e con la consueta ironia (ed autoironia) dirige scene memorabili in cui si scontra con un giovane regista attratto dalla violenza gratuita scomodando Breve film sull’uccidere (1983) di Krzysztof Kieslowski e rivaleggia con i consulenti di Netflix che non accettano la sceneggiatura del suo film perché priva di un momento “what the fuck!”.

E la domanda si complica: che tipo di cinema può proporre Nanni Moretti a 69 anni? Un cinema straordinario, come dimostra questo film, privo di nostalgia e pessimismo – e nel film più volte Giovanni/Nanni si interroga su come terminare il proprio lungometraggio: se con un suicidio oppure reinventando la storia in chiave più positiva -, un cinema che trova in questo film la sua sistematicità più esplicita, senza rinunciare al motivo cardine che traina le storie di Moretti – la difficoltà del comunicare e del farsi capire – e riesumando personaggi caratterizzati da un costante senso di insoddisfazione trasformata dalla scrittura mordace in gag o riflussi paradossali.

Il titolo, d’immediatezza antifrastica, sigla un film che non ha nulla di futuristico, non si apre verso possibilità sperimentali anzi, come già accennato, ricapitola gran parte del mondo costruito lungo tutta la carriera del regista nella convinzione che si guardi al passato affacciandoci da una finestra del presente.

Il vagheggiato “sol dell’avvenir” si potrà dunque dischiudere solamente dopo essersi interfacciati con quello che è stato e con ciò che si è diventati. E questo vale tanto nel cinema, quanto nelle relazioni che nella politica – i tre grandi temi di Il sol dell’Avvenire – tanto che c’è chi ipotizza, come Fabrizio Ferzetti, che un giorno si potrà scrivere una storia delle occasioni perdute della sinistra italiana proprio grazie ai film di Moretti.

Moretti, che non è Woody Allen anche se spesso viene paragonato al regista americano, è un autore singolare che sente ancora il bisogno di dire la propria senza cadere nella liricità astratta che ormai colma le storie di molti suoi colleghi coetanei. Un regista che sa che “le parole sono importanti”, tanto che in questo film si ritaglia una parte interpretata spesso liquefacendo le battute, stressando i ritmi dei dialoghi, scandendo fino a tempistiche inverosimili le frasi, parendo talvolta frustratamente moralista – si guardi la scena in cui tiene la troupe ferma per 8 ore per spiegare cosa il cinema non debba essere – ma più spesso sagacemente invettivo, come se si stesse leggendo una satira di Persio o un passo del Satyricon.

Quest’ultimo lapsus forse non è del tutto fuori luogo se si pensa che anche Federico Fellini nell’ultima parte della sua carriera (dopo aver raggiunto lo statuto di “venerato maestro”) si toglie diversi macigni dalle scarpe con film come Fellini Satyricon (1969) o La Città delle Donne (1980). E di fatti fellinianamente termina Il Sol dell’Avvenire, con quel corteo di personaggi, con quella parata di creature immaginarie e non, con quel miscuglio di facce e volti di attori, attrici, amici e amiche che hanno recitato nel film ma anche in altri lungometraggi di Moretti – da Elio de Capitani ad Alba Rohrwacher e Jasmine Trinca -. E non mi pare di avanzare un’osservazione acuta se ricordo che anche Otto e mezzo (1963) termina proprio con un corteo di saltimbanchi.

Perché Il Sol dell’Avvenire è un po’ l’Otto e mezzo di Moretti, senza però la crisi identitaria che piegava Marcello Mastroianni nel film di Fellini. Moretti sa benissimo chi è, sa benissimo quale cinema fare, sa perfettamente a quale pubblico rivolgersi anche se talvolta sembra dimenticarsene. E forse la battuta più vera e genuina del film è proprio quella in cui Giovanni/Nanni dice “Io non penso al pubblico quando faccio un film” per poi aggiungere subito dopo “Mi piace dire che non ci penso. Ma non so se è vero”.

A quel punto il film può chiudersi con un addio apparentemente pacificato, col regista che guarda in camera e saluta, lasciando così spazio al messaggio (morale?) che campeggia su un grande cartello rosso che afferma che dopo la condanna del PCI dei fatti d’Ungheria (evento mai accaduto nella realtà, ma che il regista Giovanni decide di immaginare per finire il suo film) in Italia si stabilii l’utopia di Marx ed Engels facendo vivere tutti felici e contenti. Perché nel cinema persino la Storia può essere reinventata.

 

 

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Jacopo Marconi

Collaboratore Massa Carrara News

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